13 Assassini
2010
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Regista
Takashi Miike è forse uno dei più prolifici registi al mondo. Il regista nipponico annovera infatti, escludendo corti e produzioni televisive, oltre sessanta film girati dal 1995 a oggi, e continua la sua folle marcia al ritmo di oltre tre film all’anno. Questa torrenziale produzione, che per molti cineasti rappresenterebbe una dispersione di energie, per Miike si rivela invece una costante esplorazione dei linguaggi cinematografici, un flusso ininterrotto che, di tanto in tanto, regala delle vere e proprie gemme.
Questo 13 Assassins è forse il suo capolavoro, un’opera che condensa la sua maestria tecnica e la sua profonda comprensione del genere, ed è strano che una tale vetta artistica arrivi con un remake. 13 Assassins è infatti il rifacimento del film omonimo di Eiichi Kudô del 1963, un piccolo cult del Sol Levante la cui aura quasi leggendaria derivava dalla sua narrazione cruda e dalla rappresentazione senza compromessi di un’epoca di transizione. Miike si accosta all’opera con una deferenza ed un rispetto tangibili, non limitandosi a una mera riproposizione, ma piuttosto intavolando un dialogo con la pellicola originale, ampliandone le risonanze tematiche e raffinandone l’estetica, e la sua versione trasuda genialità e maniacale competenza da ogni poro.
13 Assassins è un’opera di genere “Jidai Geki”, ovvero un dramma storico collocato temporalmente nel periodo Tokugawa (1603 – 1867) che narri le vicende di samurai, contadini, artigiani che vissero in quell’epoca. Questo genere, spesso intriso di riflessioni sui codici d’onore, sulle trasformazioni sociali e sul crepuscolo di un’era, rappresenta un crocevia fondamentale della cinematografia giapponese. Al Jidai Geki appartengono alcune opere come I sette Samurai di Kurosawa, o Zatoichi di Kitano, di cui abbiamo parlato diffusamente in questa lista e che sono rimaste incise a fuoco nella storia di questo pattern “Cappa e Spada” giapponese. Mentre Kurosawa esplorava la difesa dei più deboli in un’epoca di brigantaggio e incertezza, Miike si immerge qui in una narrazione più intrinsecamente politica, dove l’onore del singolo si scontra con la corruzione sistemica del potere. La sua pellicola non si limita a un’esaltazione acritica del bushido, ma ne esplora le contraddizioni e il peso etico in un mondo che sta per cambiare.
E l’amore di Miike per il genere Cappa e Spada lo si avverte da ogni inquadratura, dalla cura per la trasposizione storica, per i costumi, per le sequenza di lotta, per la ricostruzione degli scenari e per la sua tecnica di ripresa, che abbandona le nevrosi palpitanti e gli eccessi viscerali dei suoi thriller più riusciti come Audition e Ichi the Killer, per un’impronta più sobria e raffinata. Questa maturazione stilistica non è una rinuncia alla sua impronta autoriale, ma piuttosto una canalizzazione della sua energia in una direzione più contemplativa e, paradossalmente, più incisiva. Il rigore formale adottato in 13 Assassins eleva il racconto, permettendo alla brutalità della storia di emergere con una gravitas inaspettata, senza ricorrere a shock facili.
Siamo nel Giappone dei primi dell’ottocento, un’epoca di relativa pace ma anche di profonde inquietudini sociali che preannunciano la fine dell’era feudale. L’odiato Naritsugu, fratello demoniaco dello Shogun, imperversa sulle terre con spietata ferocia, simbolo di una corruzione aristocratica che mina le fondamenta stesse della società. Il suo sadismo non è fine a se stesso, ma un riflesso della dissoluzione morale di una classe dirigente. Shinzaemon Shimada, un samurai di alto lignaggio ma dal futuro incerto, viene ingaggiato per uccidere Naritsugu. La sua missione non è solo un atto di giustizia, ma quasi un ultimo, disperato tentativo di preservare l’onore del codice samurai di fronte a una minaccia che ne corrompe l’essenza. Shimada si mette subito all’opera per mettere insieme un gruppo di samurai capace di tener testa al temibile piccolo esercito di guardie del corpo del fratello dello Shogun. La costruzione di questa eterogenea compagnia, ognuno con le proprie motivazioni e abilità, ricorda la classica struttura del "team building" del Jidai Geki, ma con una tensione morale palpabile che eleva ogni singolo personaggio. Per compiere la sua missione attirerà Naritsugu in un villaggio abbandonato, un teatro di guerra meticolosamente preparato, dove allestirà trappole e agguati per raggiungere il suo obiettivo.
Un’epica battaglia si profila all’orizzonte, dove pochi valorosi uomini ingaggeranno una lotta senza quartiere con un nemico dal numero soverchiante. Il film è essenzialmente diviso in due parti: nella prima si creano le premesse per la battaglia, con una costruzione meticolosa dei personaggi e una crescente tensione psicologica che sfocia nella disperata necessità dell’impresa; nella seconda parte si narrano le vicende dell’epico scontro finale, un’apoteosi di violenza coreografata che dura quasi un’ora, senza mai perdere intensità né chiarezza narrativa.
Miike si muove con sagacia visionaria confezionando un prodotto perfetto con meravigliose scene di lotta e scintillanti duelli di katana. La sua cinepresa si muove fluida ai margini di un’azione che sgorga dalla narrazione con potenza iconografica devastante, senza mai essere ridondante, ma con una naturalezza e una credibilità che fanno di questo film un caposaldo di genere e un punto d’arrivo ineludibile nella carriera di Miike. È un’opera che riafferma la grandezza del cinema di genere quando affrontato con intelligenza e rispetto, e che dimostra come un regista possa reinventarsi pur rimanendo fedele alla propria inconfondibile voce.
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