1855 - La prima grande rapina al treno
1978
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Regista
La pellicola di Michael Crichton, tratta dal suo stesso romanzo, si dispiega come un paradosso squisitamente vittoriano: un congegno a orologeria di precisione quasi matematica, la cui anima pulsante è però un inno al caos, all'ingegno umano e alla gloriosa imperfezione dell'improvvisazione. Abituati a pensare a Crichton come al sommo sacerdote del techno-thriller, l'architetto di parchi giurassici e mondi western disfunzionali, si rischia di approcciare 1855 - La prima grande rapina al treno come una curiosa anomalia nella sua filmografia. Un errore capitale. Quest'opera non è una deviazione dal suo percorso, ma una distillazione purissima della sua ossessione fondamentale: l'analisi dei sistemi e la loro violazione. Se in Jurassic Park il sistema è biologico e tecnologico e collassa su se stesso, qui il sistema è sociale, industriale e burocratico, e viene scardinato dall'esterno con l'eleganza di un'equazione risolta.
Il film è, nella sua essenza, un manuale di ingegneria inversa applicato alla società vittoriana. Il treno che trasporta l'oro per le truppe in Crimea non è semplicemente un mezzo di trasporto; è l'apoteosi della logica industriale del XIX secolo. Un serpente di ferro che corre su binari predeterminati, con orari inflessibili, protocolli di sicurezza stratificati e un'aura di invulnerabilità meccanica. È il simbolo di un'epoca che credeva di poter imbrigliare il mondo in rotative, orari e casseforti Chubb. La rapina orchestrata da Edward Pierce, interpretato da un Sean Connery al culmine del suo carisma post-Bondiano, non è un atto di brutale violenza, ma un'operazione di decostruzione semiotica. Pierce non spezza le serrature; ne studia la lingua, ne apprende la sintassi e infine le persuade ad aprirsi.
In questo, Pierce è una figura quasi meta-testuale. È un James Bond catapultato indietro nel tempo, privato dei gadget di Q ma non della sua capacità di leggere e manipolare l'ambiente circostante. Connery infonde nel personaggio una calma olimpica, un'arroganza mitigata da un fascino quasi soprannaturale. Egli è il flâneur di Baudelaire trasformato in agente del caos, un dandy che passeggia con la stessa disinvoltura nei salotti dell'alta società e nei più sordidi bassifondi londinesi, osservando non per diletto estetico, ma per identificare le crepe nel sistema. Ogni interazione sociale, ogni codice di comportamento, ogni pregiudizio di classe diventa un potenziale strumento nel suo arsenale. La sua missione non è tanto rubare l'oro, quanto dimostrare che la macchina sociale più complessa può essere inceppata dalla variabile umana.
Al suo fianco, Donald Sutherland, nel ruolo del borsaiolo e scassinatore Agar, funge da perfetto contrappunto. Se Pierce è l'architetto, Agar è il mastro artigiano. Con il suo volto segnato e la sua andatura da operaio specializzato, egli rappresenta il sapere pratico, la conoscenza tattile del mondo che si oppone alla teoria astratta. È un personaggio quasi dickensiano, un Artful Dodger invecchiato che ha trasformato il furto in una scienza esatta. La loro dinamica è quella di Sherlock Holmes e Watson, ma ribaltata: qui il genio della deduzione è il criminale, e il suo fedele compagno è l'esecutore materiale. A completare il trio, Lesley-Anne Down incarna Miriam, un personaggio che trascende il cliché della "donna dell'eroe". Non è una semplice esca, ma una giocatrice attiva, capace di manipolare i codici della seduzione e della rispettabilità femminile vittoriana con la stessa abilità con cui Agar maneggia un grimaldello.
La vera forza del film risiede nella sua meticolosa aderenza al processo. Crichton, da romanziere e da regista, è affascinato dal "come", ancor più che dal "perché". La narrazione si prende il suo tempo per dettagliare ogni fase del piano, trasformando l'impresa in una serie di problemi logici da risolvere. Come ottenere le quattro chiavi necessarie per aprire le casseforti? Attraverso una complessa messinscena che coinvolge seduzione, furto, ricatto e persino la finta sepoltura di un complice per ottenere un'impronta in cera. Ogni sequenza è un piccolo film a sé, un meccanismo che si incastra perfettamente in quello successivo. Si avverte un'eco lontana del rigore procedurale di un film come Rififi di Dassin, ma spogliato della sua tragica cupezza e immerso in un'atmosfera da scanzonata avventura. La Londra che Crichton mette in scena non è solo uno sfondo, ma un organismo vivente, un labirinto di fumo, fango e gerarchie sociali rigide solo in apparenza. La fotografia di Geoffrey Unsworth (lo stesso di 2001: Odissea nello spazio e Cabaret) dipinge un'epoca con una tavolozza di grigi e bruni, illuminata da improvvisi sprazzi di colore, conferendo al tutto una texture quasi pittorica, a metà tra le incisioni di Gustave Doré e gli oli di Turner.
E poi c'è il climax. L'assalto al treno in corsa è un pezzo di cinema puro, un balletto meccanico di una fisicità sbalorditiva che oggi verrebbe delegato a una sterile parata di effetti digitali. La decisione di far eseguire a Connery stesso la maggior parte delle acrobazie sul tetto del treno sfrecciante non è un vezzo da divo, ma una dichiarazione d'intenti. Si percepisce il vento, il pericolo reale, il fumo acre del carbone. È un omaggio diretto ai pionieri del cinema muto, a Buster Keaton che sfidava la morte in Come vinsi la guerra (The General). In quell'istante, il film trascende il genere heist per diventare un'ode al corpo umano che sfida la macchina, l'atleta che doma la bestia d'acciaio. È il culmine della tesi di Crichton: la tecnologia più avanzata può essere sconfitta non da una tecnologia superiore, ma dall'audacia, dalla destrezza e da una buona dose di follia umana.
In definitiva, 1855 - La prima grande rapina al treno è un'opera di un'eleganza rara, un caper movie che possiede l'anima di un romanzo di Jules Verne e la struttura di un saggio di ingegneria. Celebra l'intelletto non come sterile esercizio accademico, ma come strumento di liberazione e sovversione. Sotto la patina del divertissement avventuroso, si nasconde una riflessione acuta sulla fragilità di ogni ordine costituito. Il film ci ricorda che non esiste sistema, per quanto robusto e sorvegliato, che non possa essere aggirato da un pensiero laterale, da un'alleanza improbabile e dal coraggio di correre, letteralmente, sul tetto di un mondo che crede di avere tutto sotto controllo. È un pezzo di cinema la cui meccanica perfetta non soffoca mai il suo cuore pulsante e anarchico, un classico intramontabile che appartiene di diritto al pantheon dei colpi (cinematografici) perfetti.
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