1917
2019
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Regista
L'impalcatura tecnica di un film, la sua stessa grammatica, raramente coincide in modo così tellurico e totalizzante con la sua anima tematica come in 1917 di Sam Mendes. Più che un film di guerra, è un'immersione forzata, un'apnea cinematografica di quasi due ore che ci lega indissolubilmente al passo, al respiro e al terrore di due giovani soldati. L'artificio del piano sequenza unico (in realtà un collage magistrale di riprese lunghissime, cucite insieme dalla stregoneria digitale di Lee Smith) smette quasi subito di essere un semplice stunt virtuosistico per diventare la cifra stilistica fondante, il motore narrativo e, in ultima analisi, la tesi stessa dell'opera. Mendes non ci racconta una storia sulla Prima Guerra Mondiale; ci scaraventa dentro la sua percezione sensoriale, abolendo la distanza di sicurezza offerta dal montaggio tradizionale.
Il cinema ha sempre flirtato con l'illusione della continuità. Da Nodo alla gola di Hitchcock, un esperimento teatrale costretto dalle limitazioni della pellicola, a Birdman di Iñárritu, un vortice psicologico nella mente di un attore, il piano sequenza è stato usato per creare claustrofobia e intensità. Ma l'approccio di Mendes è diverso, quasi antitetico. Lì dove Hitchcock comprimeva lo spazio, Mendes lo dilata all'infinito. Lì dove Iñárritu seguiva i capricci della mente, Mendes si ancora disperatamente alla fisicità del terreno: il fango che risucchia gli stivali, i cadaveri che diventano inciampi, i fili spinati che lacerano la carne. L'analogia più calzante, e qui risiede la sua sconcertante modernità, non è tanto con il cinema precedente, quanto con il linguaggio dei videogiochi. 1917 è, nella sua struttura profonda, un third-person survival game con una escort mission come trama principale. La camera, posizionata costantemente alle spalle o di fianco ai caporali Schofield e Blake, emula la prospettiva di un giocatore, vincolandoci a un'esperienza in tempo reale dove il pericolo può arrivare da ogni angolo, ma la visuale resta ostinatamente limitata. Non ci sono controcampi a mostrarci il nemico, non ci sono stacchi a darci un quadro strategico. Esiste solo l'avanzare, un passo dopo l'altro, in un corridoio di orrore a cielo aperto.
Questa scelta radicale trasfigura una trama altrimenti archetipica – la consegna di un messaggio vitale, un canovaccio vecchio come la battaglia di Maratona – in qualcosa di più primordiale. Il viaggio di Schofield e Blake diventa una discesa agli inferi, una nekyia omerica in uniforme color kaki. Le trincee britanniche, con la loro umanità brulicante e rassegnata, sono l'ultimo avamposto del mondo dei vivi. La terra di nessuno, un paesaggio lunare punteggiato di crateri, cavalli in putrefazione e corpi impigliati nel filo spinato, è il Limbo, un regno desolato dove la morte non è un evento ma una condizione permanente del paesaggio. La trincea tedesca abbandonata, con le sue trappole e i suoi ratti grandi come gatti, è un labirinto ingannevole. Ogni tappa del loro percorso sembra riecheggiare un topos mitologico, filtrato attraverso la brutalità meccanizzata del XX secolo. Persino il fiume che Schofield attraversa, trascinato dalla corrente tra cadaveri galleggianti come ninfee mortuarie, assume le sembianze di uno Stige da incubo, un battesimo nero che lo purifica e lo danna allo stesso tempo.
In questo inferno terrestre, la macchina da presa di Roger Deakins non si limita a registrare, ma dipinge. La fotografia del film è un trattato sulla luce in tempo di guerra. La prima parte è immersa in un grigiore opprimente, una luce lattiginosa e diffusa che appiattisce ogni cosa, rendendo il mondo uniformemente desolato. È un'estetica che ricorda le fotografie sbiadite dell'epoca o, spingendosi oltre, i paesaggi devastati dei pittori di guerra britannici come Paul Nash, dove la natura stessa sembra essere una vittima traumatizzata del conflitto. Poi, dopo un punto di rottura narrativo che coincide con l'unico, evidente stacco del film, la notte. E qui Deakins orchestra un capolavoro di espressionismo. Il villaggio di Écoust-Saint-Mein in fiamme, illuminato a intermittenza dai bengala, non è più un luogo reale. Diventa un teatro di ombre, un palcoscenico per un balletto macabro dove le rovine si stagliano come quinte teatrali e la luce è un personaggio attivo, che rivela e nasconde, creando un'atmosfera da noir gotico. Le sagome dei soldati si muovono in un gioco di chiaroscuri degno di un Caravaggio impazzito, trasformando la violenza in un'allucinazione visiva di bellezza terribile e straziante.
È proprio in questa tensione tra l'iperrealismo dell'approccio tecnico e l'astrazione quasi onirica di certi passaggi che 1917 trova la sua grandezza. Il film è ossessionato dalla fisicità, dal dettaglio materico – il latte versato, la ferita sulla mano, il pane nel tascapane – eppure la sua progressione assume i contorni di un'epopea astratta sul Tempo. La missione dei protagonisti è una lotta contro l'orologio, un tentativo disperato di fermare un meccanismo di morte già innescato. Il piano sequenza diventa così la rappresentazione visiva di questo tempo che scorre inesorabile, senza pause, senza ellissi. Ogni secondo che passa è un secondo guadagnato o perso, e lo spettatore lo avverte sulla propria pelle. La guerra, in questa prospettiva, non è una serie di battaglie gloriose, ma una catena di montaggio di morte che deve essere sabotata dall'interno.
Mendes, attingendo ai racconti di suo nonno, Alfred Mendes, che combatté realmente sul fronte occidentale, sceglie di non approfondire la psicologia dei suoi personaggi in modo convenzionale. Schofield (un magnifico George MacKay, il cui volto si trasforma da maschera di stoica rassegnazione a icona di disperata determinazione) e Blake (Dean-Charles Chapman) non sono definiti da lunghi dialoghi o flashback. Sono definiti dalle loro azioni, dalle loro reazioni istintive. Sono, in un certo senso, degli everyman, veicoli attraverso cui lo spettatore vive l'esperienza. Le loro brevi conversazioni – su una medaglia scambiata per del cibo, su una fioritura di ciliegi, su una storia divertente – sono piccole, preziose isole di umanità in un oceano di disumanizzazione. Gli incontri con altri personaggi, spesso camei di attori famosi (Colin Firth, Benedict Cumberbatch, Mark Strong), funzionano come i PNG (personaggi non giocanti) di un videogioco: forniscono informazioni, rappresentano un ostacolo o un breve momento di tregua, prima che la "quest" principale riprenda il suo corso inarrestabile.
L'opera di Mendes si inserisce in un filone di cinema bellico che, da Salvate il soldato Ryan in poi, ha privilegiato l'esperienza immersiva rispetto alla narrazione strategica o politica. Ma se Spielberg usava la camera a spalla e il montaggio frenetico per simulare il caos della battaglia, Mendes usa la fluidità quasi innaturale della Steadicam per creare un'esperienza diversa: non il caos del combattimento, ma l'angoscia ininterrotta del transito, del movimento perpetuo attraverso il pericolo. La scena più emblematica, la corsa finale di Schofield lungo la linea del fronte, con i soldati che scattano fuori dalla trincea e la pioggia di terra sollevata dalle esplosioni, è la sintesi perfetta del film: un uomo solo che corre in orizzontale, controcorrente rispetto alla carica verticale della morte, in un disperato tentativo di far prevalere un messaggio di vita sulla cacofonia della distruzione.
1917 non è un film sull'eroismo, ma sulla perseveranza. Non è un film sulla vittoria, ma sulla sopravvivenza. Il suo virtuosismo tecnico non è mai fine a se stesso, ma è lo strumento necessario per comunicare un'idea fondamentale: la guerra non è un evento da osservare, ma una condizione da attraversare. La fine del viaggio di Schofield non porta catarsi, né una risoluzione del conflitto. Porta solo il compimento di un singolo, minuscolo compito, la salvezza di un battaglione. Poi, la stanchezza. Si siede ai piedi di un albero, in una posa che riecheggia l'inizio del film, chiudendo un cerchio di fatica e dolore. La guerra continua, il meccanismo non si è fermato. Ma per un breve, fragile momento, un uomo si è opposto alla marea e, contro ogni probabilità, non è stato sommerso. E la camera, finalmente, si ferma con lui.
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