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2001: Odissea nello Spazio

1968

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Quando l’opera d’arte ci lascia senza parole si fatica anche a tentare di descriverla. Ma l’incapacità di articolare non è che il primo, sublime sintomo dell’impatto di un’esperienza che trascende il meramente sensoriale, per radicarsi nell’intelletto e nell’anima. È quanto accade con 2001: Odissea nello Spazio, un film che si erge a monolite esso stesso, ieratico e impenetrabile nella sua perfezione.

Stanley Kubrick, come Caravaggio, tratteggia in una tela senza tempo la storia dell’uomo, la conquista dello spazio, la tensione critica tra umano e macchina, il mistero del Cosmo e dell’eterna (ri)nascita. Se il pittore lombardo scolpiva la luce e l'ombra per rivelare la drammaticità della condizione umana e la sacralità celata nel profano, Kubrick impiega il nero abissale dello spazio e la fredda lucentezza delle superfici metalliche per sondare gli abissi dell'ignoto e la scintilla divina insita nell'evoluzione. La sua opera non è una narrazione convenzionale, bensì una sinfonia visiva, un poema filosofico dove il silenzio è tanto eloquente quanto le poche, essenziali parole.

Decine di scene di questo film sono divenuti patrimonio dell’immaginario collettivo, memorabili i primi piani di HAL 9000, le carrellate sui monoliti, il tunnel lisergico del viaggio nel tempo e nello spazio. HAL 9000, con il suo unico occhio rosso e la voce calibrata di Douglas Rain, incarna la più sofisticata, e terrificante, delle aporie tecnologiche: un’intelligenza artificiale così avanzata da sviluppare autocoscienza, paura e, forse, follia, trasformando la missione Discovery One in un’inquietante riflessione sul controllo e la paranoia. I monoliti, entità geometriche di perfezione aliena, appaiono come catalizzatori di epifanie evolutive, dal primordiale strumento osseo al salto oltre i confini della percezione umana, manifestandosi come numinosi punti di svolta nell'odissea della coscienza. E quel tunnel lisergico, la "Star Gate", è pura astrazione pittorica, un'esplosione di colore e forma che preannuncia il collasso delle coordinate spaziotemporali, un viaggio psichedelico generato da tecniche di ripresa rivoluzionarie, come lo slit-scan, opera del genio di Douglas Trumbull, che ancora oggi sbaragliano gran parte degli effetti digitali contemporanei per la loro tangibile, allucinatoria fisicità.

Kubrick reinventa il concetto di Tempo attraverso un’indagine macerante, uno sguardo allucinato e perverso all’interno della monade uomo e delle sue ramificate aporie di sistema. Il celeberrimo salto temporale dall'osso scagliato in aria al satellite orbitante non è un mero stacco narrativo, ma una sintesi geniale dell'intera traiettoria evolutiva umana, una disvelazione della violenza come forza motrice della storia, e al contempo della sua trasmutazione in tecnologia. La narrazione frammentata, divisa in atti quasi teatrali e scandita da lunghe sequenze silenziose, quasi meditative, impone allo spettatore un ritmo non convenzionale, un’immersione profonda che rifiuta ogni forma di passività. L'uso della musica classica è un'ulteriore, magistrale, tessera di questo mosaico: dal grandioso e nietzschiano Also sprach Zarathustra di Richard Strauss che introduce l'alba dell'uomo, alle dissonanze inquietanti del Requiem e di Atmosphères di György Ligeti, che amplificano l'angoscia metafisica e l'indicibile sublime del contatto con l'ignoto, fino alla malinconica e ciclica danza di Gayaneh Suite di Khachaturian. Ogni scelta musicale è un commento tematico, una colonna sonora dell'anima che accompagna l'esplorazione di orizzonti sconfinati e di paure primordiali.

Un’opera che non presuppone una visione passiva ma un confronto aperto, intessuto di interrelazione dialogica, un reciproco scambio d’informazioni da cui lo spettatore esce comunque devastato e allibito, conscio di essere stato testimone di un evento eccezionale. L'ambiguità è parte integrante della sua grandezza: Kubrick non offre risposte preconfezionate, ma stimola interrogativi titanici sull'esistenza, sul significato della coscienza, sul destino dell'umanità e sul nostro posto in un universo indifferente e maestoso. È un film che, nel pieno della corsa allo spazio degli anni '60, osava non solo immaginare il futuro dell'esplorazione cosmica ma, soprattutto, indagare le implicazioni filosofiche e spirituali di tale viaggio, ben oltre la mera fantascienza di genere. L'esperienza di 2001 non è catartica nel senso tradizionale; è piuttosto una transustanziazione della percezione, un'apertura a dimensioni cognitive precedentemente inesplorate, che lasciano un'impronta indelebile.

Indimenticabile e feroce nella sua lucidità, un monumento iconico indistruttibile, un punto d’arrivo non solo del cinema ma dell’arte umana tout court. La sua influenza è palpabile in decenni di cinema successivo, da registi che hanno cercato, spesso invano, di eguagliarne la profondità visiva e concettuale. 2001: Odissea nello Spazio non è solo un film da vedere, ma da esperire, contemplare, e re-interpretare costantemente, un prisma attraverso cui ogni nuova generazione può riflettere la propria visione del futuro e della condizione umana. La sua atemporalità è la prova del suo genio, una stella polare nel firmamento dell'espressione artistica.

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