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1963

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Un film autoreferenziale e strettamente autobiografico quello che Federico Fellini gira a inizio anni sessanta, in piena rivoluzione culturale e politica. È l’Italia del “miracolo economico”, un paese in bilico tra la modernità scintillante e il peso di una tradizione millenaria, e in questo crogiolo di fermento, l’artista si ritira nell’antro della sua coscienza, trasformando la crisi creativa in materia prima. Il film non è solo la cronaca di un blocco, ma una riflessione acuta sulla natura stessa della creazione e sull'impossibilità di separare l'uomo dall'arte che produce.

Un’opera che mette in movimento una controcultura sotterranea, quasi reazionaria nelle forme, poiché si allontana dal realismo sociale per abbracciare l'introspezione e il fantastico, ma sottilmente rivoluzionaria nei mezzi espressivi e nella metanarrazione. Fellini, infatti, non si limita a raccontare una storia, ma disseziona il processo narrativo stesso, smascherando le convenzioni e ridefinendo i confini tra finzione e realtà. La potente forza dell’ironia, un'arma affilata e disincantata, innesca un moto segreto e invalicabile, permettendo al regista di giocare con la sua stessa immagine e con le aspettative del pubblico, anticipando di decenni quel cinema riflessivo e auto-cosciente che avrebbe poi fiorito, da Godard a Woody Allen in Stardust Memories, fino alle più recenti incursioni di Charlie Kaufman.

Guido Anselmi (Marcello Mastroianni) non è semplicemente un regista che cerca di rilassarsi dopo la sua ultima fatica cinematografica; è l'archetipo dell'artista al crocevia, un alter ego trasparente e magnificamente fragile. Egli è puntualmente perseguitato da personaggi che cercano un lavoro nel cinema, da produttori incalzanti e da una corte di intellettuali pomposi che lo assediano con consigli non richiesti, ma soprattutto da sogni e paranoie personali che si insinuano piano dal passato, frammenti di memoria e desideri inconfessabili che si manifestano con la logica distorta e imprevedibile del subconscio. Mastroianni, con la sua eleganza malinconica e la sua capacità di incarnare sia la maschera che l'anima tormentata, rende Guido un personaggio universale, un Prometeo moderno incatenato non alla roccia, ma al labirinto della sua stessa mente.

Tante le scene memorabili entrate a far parte dell’immaginario collettivo di tutti noi, tasselli di un mosaico psicanalitico e visivo: la danza sensuale di Barbara Steele a bordo piscina, un'epifania di bellezza enigmatica che rompe la monotonia curativa della stazione termale; il sogno con la gamba sospesa nell’aria legata a terra da una corda con una meravigliosa inquadratura verso il basso, un’allegoria di libertà e costrizione, di desiderio inappagato e di un inconscio che si ribella; l’harem visionario, quintessenza della fantasia maschile felliniana, dove la soubrette è costretta a ritirarsi ai piani alti per sopraggiunti limiti d’età e dove una conturbante Valchiria le chiede di esibirsi, una metafora crudele e poetica sul declino e sulla perenne ricerca di giovinezza e vitalità. E poi ancora, la processione onirica finale, una catarsi collettiva che scioglie i nodi del racconto in una danza liberatoria sull’anello di un circo, simbolo della vita stessa come uno spettacolo grandioso e beffardo.

Una miriade di situazioni come tasselli onirici di un grande disegno sotterraneo, dove il confine tra ciò che è vissuto e ciò che è sognato, tra il ricordo e la fantasia, si dissolve in una continuità fluida e affascinante. Fellini, con l'aiuto della sublime fotografia in bianco e nero di Gianni Di Venanzo e delle musiche eteree e circensi di Nino Rota, dipinge un affresco della mente umana, dei suoi strati nascosti e dei suoi archetipi junghiani. La camera si muove con la leggerezza di un pensiero, esplorando gli abissi del blocco creativo e delle aspettative soffocanti che gravano sull'artista.

Un film cristallino, puro e tagliente come un rubino appena intagliato da una mano esperta, che lascia frastornati come un sogno che non riusciamo a ricostruire ma di cui sentiamo profondamente l’eco. La sua struttura frammentaria e non lineare, che all'epoca apparve come una provocazione audace, è in realtà la rappresentazione più fedele del processo mentale di Guido: un flusso di coscienza che rifiuta ogni schema narrativo convenzionale per abbracciare l'irrazionalità e la poesia del pensiero. È l’impronta indelebile del modernismo cinematografico, un’opera che ha aperto le porte a nuove forme di espressione, dimostrando che la vera arte risiede nella capacità di guardarsi dentro con onestà brutale e gioiosa.

Dunque un Fellini che partorisce un tesoro immaginifico ad ogni inquadratura andando a campire un glossario di icone barocche, quasi rococò nell'opulenza e nell'eccesso emotivo, una legenda con cui interpretare la sua poetica, la sua splendida umanità. Non è solo la crisi di un regista, ma la crisi dell’uomo contemporaneo, assediato dalla complessità, alla ricerca di un senso in un mondo sempre più disorientante. Fellini non offre risposte, ma la celebrazione gioiosa e malinconica della ricerca stessa, un inno alla vita nella sua irriducibile mescolanza di bellezza e bruttezza, sacro e profano. La sua grandezza risiede proprio in questa capacità di trasformare l’introspezione più privata in un’esperienza universale, risuonando con chiunque abbia mai cercato un significato, una direzione, o semplicemente una scintilla di ispirazione.

In assoluto il film italiano più amato all’estero, un’icona del cinema mondiale la cui influenza è palpabile in opere di registi di ogni latitudine, da Ingmar Bergman a Woody Allen, da Paolo Sorrentino a Leos Carax. Un capolavoro che continua a interrogare, a ispirare e, soprattutto, a farci sognare ad occhi aperti.

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