A Night of Knowing Nothing
2022
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Regista
Un baule di nastri, reperti di un tempo recentissimo eppure già archeologico, sigillato come una capsula del tempo o una tomba faraonica. È da questo ritrovamento, da questo gesto di riesumazione che Payal Kapadia orchestra il suo "A Night of Knowing Nothing", un’opera che rifiuta ogni facile etichettatura, fluttuando con grazia spettrale tra il documentario, il saggio cinematografico e il melodramma epistolare. Il film si presenta come un palinsesto, dove sotto la cronaca turbolenta delle proteste studentesche che hanno incendiato l’India negli ultimi anni, si legge in filigrana una storia d'amore perduta, raccontata attraverso le lettere mai spedite di una giovane studentessa, L., al suo amante K., costretto ad allontanarsi da lei a causa delle pressioni familiari legate al sistema delle caste.
Questa struttura duale è il primo, geniale colpo di Kapadia. La voce narrante di L., che legge le sue missive cariche di nostalgia e desiderio, non funge da semplice cornice, ma diventa il reagente chimico che trasfigura il materiale documentaristico. Le immagini grezze, sgranate, spesso caotiche delle manifestazioni, degli scontri con la polizia, delle assemblee infuocate, vengono riassemblate non secondo una logica cronologica o giornalistica, ma secondo il flusso di coscienza emotivo di un cuore spezzato. In questo, il film si pone come un discendente diretto, quasi un'evocazione consapevole, del cinema di Chris Marker. Impossibile non pensare a Sans Soleil, a quel suo vagabondare tra immagini e pensieri, dove la riflessione personale di un viaggiatore immaginario rileggeva la memoria collettiva del mondo. Kapadia, tuttavia, inverte la polarità: se in Marker è il macro (la Storia, la cultura globale) a innescare il micro (la riflessione intima), qui è il trauma microscopico di un amore interrotto a diventare la lente attraverso cui osservare la frattura macroscopica di una nazione. La lotta politica diventa il paesaggio esteriore della disperazione interiore di L.; il corpo collettivo degli studenti che si scontra con il potere diventa una metafora del suo stesso corpo, separato da quello dell'amato.
La scelta del bianco e nero, lungi dall'essere un vezzo estetico, è una decisione strategica di importanza capitale. Uniforma un corpus visivo eterogeneo – filmati da cellulari, frammenti di cinegiornali, riprese amatoriali, sequenze oniriche girate dalla stessa regista – conferendogli la patina di un ricordo universale, di un sogno febbrile. Il bianco e nero astrae, trasforma la cronaca in mito, il contingente in archetipo. Le notti di occupazione universitaria, illuminate da torce e schermi di smartphone, assumono la qualità pittorica di un notturno di Georges de La Tour, dove la luce della conoscenza e della resistenza lotta contro un'oscurità opprimente. La grana spessa dell'immagine, la sua instabilità, non sono difetti tecnici ma la texture stessa della memoria: imperfetta, fragile, soggetta a dissolvenza. Kapadia non sta documentando la "verità"; sta piuttosto assemblando i cocci di una verità andata in frantumi, e in questo suo gesto di montatrice-archeologa risiede il cuore pulsante del film.
Il film è un'opera profondamente meta-testuale. Nasce all'interno del Film and Television Institute of India (FTII), uno dei principali focolai della protesta, ed è realizzato da e su studenti di cinema. Le videocamere non sono strumenti neutrali di osservazione, ma armi, diari, scudi. Filmare diventa un atto di resistenza, un modo per creare un contro-archivio rispetto alla narrazione ufficiale. In una sequenza memorabile, uno studente parla di come il cinema sia l'unico sogno che la sua famiglia non ha potuto controllare. Questa frase riverbera per tutto il film: il cinema come spazio di libertà, di utopia, dove un amore inter-casta è possibile e dove la voce dei singoli può diventare un coro assordante. In questo senso, l'opera di Kapadia si ricollega a quella stagione del cinema militante, dal Gruppo Dziga Vertov di Godard e Gorin al cinema politico sudamericano, ma se ne distanzia per il suo lirismo struggente. Non è un pamphlet, ma una ballata. Non un comizio, ma una preghiera sussurrata nel buio.
L'analogia più audace, forse, non è nemmeno con il cinema, ma con la letteratura. "A Night of Knowing Nothing" ha la struttura di un romanzo modernista, un flusso di coscienza alla Virginia Woolf dove il tempo non è lineare ma si ripiega su se stesso, governato dalle leggi dell'associazione emotiva. Le lettere di L. sono il nostro "filo di Arianna" in un labirinto di immagini che altrimenti rischierebbero di essere solo rumore. Ma questo filo, a tratti, si spezza. La voce di L. si fa da parte, e altre voci, altri volti, altre storie di discriminazione e lotta emergono dal buio. Il suo dramma personale si dissolve nel dramma collettivo, la sua identità si fonde con quella di una generazione. È un movimento narrativo di una bellezza e di una potenza sconvolgenti, che ci ricorda come nessuna storia d'amore sia mai veramente un'isola, ma sia sempre e comunque immersa nella corrente tellurica della Storia.
Il titolo stesso, "Una notte in cui non si sa nulla", è una dichiarazione di poetica. Rifiuta la pretesa di onniscienza del documentario tradizionale. Ammette l'incertezza, l'impossibilità di afferrare la totalità del reale. "Sapere nulla" non è un'ammissione di ignoranza, ma l'accettazione di una condizione esistenziale e politica. Cosa ne è stato di L. e K.? La protesta ha avuto successo? Il film non offre risposte facili, perché il suo scopo non è informare, ma trasmettere uno stato d'animo. È un film-fantasma, popolato dalle assenze: l'assenza dell'amante, l'assenza di un futuro certo, l'assenza di una narrazione univoca. Eppure, da questo vuoto, Kapadia riesce a distillare un senso di speranza tenace e commovente. La speranza che risiede nell'atto stesso di raccogliere i frammenti, di cucire insieme le storie, di far sì che una lettera d'amore perduta possa diventare il canto di un'intera generazione. In un'epoca satura di immagini ad alta definizione che pretendono di mostrarci tutto, "A Night of Knowing Nothing" ci ricorda che il cinema più profondo e necessario è forse quello che si avventura nel buio, armato solo della fragilità di una voce e della luce tremolante di un ricordo.
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