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Il Profeta

2009

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Audiard si dimostra fine affabulatore nel campire questo vivido affresco della vita di un uomo, o per meglio dire della sua parabola criminale: da mezza tacca senza alcuna prospettiva a boss temuto e rispettato. La sua maestria non si limita a disegnare una mera traiettoria di ascesa, ma scava nelle profondità di una psiche in formazione, rendendo la prigione non solo uno sfondo ma un vero e proprio crogiolo esistenziale, un laboratorio dove l'identità viene forgiata nel fuoco della necessità.

La formazione dell’uomo, il suo silenzioso apprendere, il suo darwiniano adattamento alla dura vita del carcere, la sua ambigua passività, i suoi invisibili turbamenti, la sua spietatezza: tutti elementi che gradatamente compongono una visione di abbacinante realismo, un crudo resoconto filmato con sensibilità e polso fermo. Malik el Djebena non è un criminale nato, bensì una tabula rasa che il sistema e le sue brutali logiche iscrivono con un alfabeto di violenza e calcolo. La sua trasformazione è un processo organico, quasi biologico, dove ogni azione, ogni osservazione, ogni atto di sottomissione o ribellione contribuisce a scolpire una figura nuova, imprevedibile, destinata a superare i suoi stessi carnefici e maestri. È in questa metamorfosi che risiede la perturbante forza del titolo: chi è il profeta, se non colui che, attraverso l'esperienza più cruda, finisce per pre-vedere e incarnare una nuova, spietata, logica di potere?

La storia è quella di Malik el Djebena, un giovane arabo di 19 anni finito in carcere con 6 anni di condanna da scontare. Privo di radici, di educazione formale e di affetti, Malik entra in un universo carcerario che è un microcosmo della società esterna, con le sue rigide gerarchie etniche, le sue economie sotterranee e le sue ineludibili leggi non scritte. Nel mondo carcerario dovrà velocemente adeguarsi ad un altro codice di regole se vorrà sopravvivere, e il film ci mostra questo adattamento con una precisione quasi documentaristica, ma intrisa di una tensione drammatica palpabile. La cella diventa una classe, il cortile un campo di battaglia, e ogni detenuto un potenziale maestro o un nemico.

Il suo spirito di adattamento, lungi dall'essere una semplice resilienza passiva, si rivela una forma acuta di intelligenza strategica. Lo porterà sotto la protezione di un boss corso, César Luciani, interpretato da un monumentale Niels Arestrup, la cui presenza magnetica e brutale incarna il vecchio ordine. Malik, con l'astuzia del debole che studia il forte, userà l’amicizia apparente per condurre sotterraneamente un doppio gioco, imparando le lingue, le strategie criminali, le arti della manipolazione e del compromesso, fino a divenire più potente e temuto del suo stesso protettore. È un passaggio di consegne generazionale, un’evoluzione darwiniana dove la vecchia guardia cede il passo a un predatore più agile, più silenzioso, più versatile.

Splendide alcune sequenze come l’uccisione del detenuto con la lametta da barba nascosta in bocca: un rito di iniziazione brutale e indimenticabile, che segna la definitiva perdita dell'innocenza e l'accettazione di una nuova, terrificante, identità. Non è solo un atto di violenza, ma un battesimo di sangue che incorpora Malik pienamente nel sistema, costringendolo a confrontarsi con la sua capacità di perpetrare il male. L’inquietante presenza del fantasma di Reyeb, la sua vittima, che lo segue e lo consiglia quasi fosse una proiezione della sua coscienza emergente o del suo subconscio assimilante, aggiunge una dimensione quasi mistica a questo dramma crudo, trasformando il percorso di Malik in una sorta di viaggio spirituale al contrario, attraverso gli inferi. Questo espediente narrativo eleva il film al di là del semplice genere carcerario, invitandoci a riflettere sulla natura del male, del senso di colpa e della sopravvivenza.

Audiard, con la sua estetica rigorosa e una regia che non teme di immergersi nel viscerale pur mantenendo una lucidità quasi chirurgica, si conferma un autore di rara sensibilità. Il suo sguardo, mai giudicante, si posa sulla trasformazione di Malik con la curiosità di un antropologo, offrendo uno spaccato profondo e sconcertante non solo sul sistema carcerario francese, ma anche sulle dinamiche di potere, sull'integrazione e sull'identità in una società multiculturale. Il film evita le facili moralizzazioni, preferendo una rappresentazione nuda e cruda della realtà, dove la distinzione tra vittima e carnefice si fa sempre più labile, e dove l'ambizione e la pura volontà di sopravvivenza plasmano destini inesorabili. Un’opera davvero notevole, in cui spicca la mano di un regista tra i più interessanti dell’ultima generazione francese di cineasti, capace di fondere il realismo sociale alla scuola francese con una tensione drammatica degna dei grandi film di genere americani, pur conservando un’anima europea e profondamente riflessiva. “Un prophète” non è solo un film di prigione; è un'epopea di formazione, un'allegoria del potere e della corruzione, un monito sulla resilienza oscura dell'animo umano.

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