A proposito di Davis
2013
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Registi
Un vicolo buio, umido e sporco del Greenwich Village. Un uomo, una sigaretta, una sconfitta impressa sul volto. Una sagoma emerge dall'ombra e lo colpisce. L'uomo crolla. È l'inizio del film. Ed è anche la sua fine. In questo Ouroboros narrativo, in questo anello di Möbius esistenziale che i fratelli Coen tessono con la precisione di Parche sadiche, risiede l'essenza stessa di A proposito di Davis. Non siamo di fronte a una parabola di successo, né a un racconto di redenzione. Siamo intrappolati in un frammento di tempo, una settimana nella vita di un uomo che, come Sisifo, è condannato a spingere il masso del proprio talento su per una collina di indifferenza, solo per vederlo rotolare di nuovo a valle.
Llewyn Davis, interpretato da un Oscar Isaac la cui performance è una sinfonia di scontrosa vulnerabilità, è un artista puro in un mondo che chiede compromessi. È un cantante folk dotato di una voce che sembra provenire dalle profondità della terra americana, un lamento antico e sincero. Ma il suo talento è inscindibile dal suo carattere: è un parassita affascinante, un egoista incallito, un portatore sano di sventura per chiunque abbia la sfortuna di incrociare il suo cammino. Naviga a vista sui divani di amici e conoscenti, lasciando dietro di sé una scia di gravidanze indesiderate, amicizie incrinate e gatti smarriti. I Coen, maestri nel ritrarre l'uomo comune schiacciato da forze cosmiche o burocratiche (dal Job moderno di A Serious Man all'artista infernale di Barton Fink), qui cesellano il loro archetipo forse più doloroso: l'uomo che è il solo e unico architetto del proprio fallimento. Non c'è un complotto divino, non c'è una valigetta piena di soldi che finisce nelle mani sbagliate. C'è solo Llewyn, la sua chitarra e la sua incapacità quasi patologica di fare la mossa giusta.
Il film è immerso in un'atmosfera quasi spettrale, un inverno perenne dell'anima che la fotografia desaturata e lattiginosa di Bruno Delbonnel cattura con una bellezza lancinante. Il Greenwich Village del 1961 non è il focolaio bohémien e romantico della leggenda, ma un purgatorio grigio e freddo, un limbo popolato da anime in attesa. In attesa di cosa? Del successo, della rivoluzione culturale, di Bob Dylan. L'ombra di Dylan aleggia sul film come un fatale presagio. Llewyn è il Mosè della musica folk, destinato a vedere la Terra Promessa da lontano ma a non entrarvi mai. È il precursore, il talento autentico e intransigente su cui si costruirà la leggenda di qualcun altro, qualcuno con un tempismo migliore o forse, semplicemente, con un nome più orecchiabile. La scena finale, in cui un giovane e ancora sconosciuto Dylan sale sul palco del Gaslight Café subito dopo Llewyn, è una delle più crudeli e geniali ellissi della storia del cinema. La storia sta per svoltare, ma la nostra telecamera rimane su Llewyn, nel vicolo, a ricevere i pugni che avevamo visto all'inizio. Il mondo va avanti, lui no.
La struttura del film, ispirata liberamente al memoir di Dave Van Ronk The Mayor of MacDougal Street, è meno una trama e più una ballata folk essa stessa: una serie di strofe e ritornelli che si ripetono con variazioni minime. Il ritornello è la ricerca di un posto dove dormire. Le strofe sono incontri con personaggi che rappresentano le diverse vie che Llewyn rifiuta o non riesce a percorrere. C'è la coppia di amici, Jim e Jean (Justin Timberlake e Carey Mulligan), la cui versione addomesticata e commercialmente appetibile del folk è un affronto alla purezza artistica di Llewyn. C'è il viaggio on the road verso Chicago, una disastrosa e beckettiana anabasi verso il nulla in compagnia di due figure quasi mitologiche: un jazzista eroinomane e verboso, Roland Turner (un John Goodman gigantesco, un Caronte sboccato che traghetta Llewyn verso il suo personale inferno), e il suo laconico valletto beatnik, Johnny Five. Questo viaggio non è l'epopea di scoperta di Kerouac; è un'odissea al contrario, un percorso non verso casa, ma verso la conferma definitiva della propria irrilevanza.
E poi c'è il gatto. Anzi, i gatti. Chiamato Ulisse, il felino dei suoi amici professori che Llewyn perde e poi cerca disperatamente di ritrovare, è il MacGuffin più stralunato e metaforicamente denso della filmografia coeniana. È un compagno di viaggio riluttante, un peso, una responsabilità che Llewyn non sa gestire, proprio come la sua carriera o le sue relazioni. È l'incarnazione fisica della sua Odissea fallimentare. La brillantezza sta nel dubbio, sottilmente insinuato, che il gatto che Llewyn recupera e si porta fino a Chicago non sia lo stesso che ha perso. Questo dettaglio, apparentemente minore, trasforma il viaggio da una ricerca a un esercizio di futilità ancora più profondo. Llewyn si danna per un surrogato, per un simbolo vuoto, ingannando se stesso e gli altri. In un universo kafkiano come quello dei Coen, non c'è neanche la consolazione di aver riparato al proprio errore. Si ripara all'errore sbagliato.
La musica, eseguita dal vivo sul set da Oscar Isaac con una maestria sbalorditiva, non è un semplice intermezzo, ma il nucleo emotivo e tematico del film. Canzoni come "Hang Me, Oh Hang Me" o la struggente "Fare Thee Well (Dink's Song)" non sono commenti alla storia: sono la storia. Nelle performance di Llewyn, vediamo l'artista che potrebbe essere, l'anima sensibile e malinconica che il suo carattere abrasivo nasconde. È l'unico momento in cui il suo guscio si incrina e la sua verità emerge. Ma anche qui, il successo è beffardo. L'unica sua potenziale hit è "Please Mr. Kennedy", una canzonetta novelty demenziale che lui stesso disprezza, registrata per bisogno immediato di soldi e di cui cede i diritti, perdendo l'unica, ironica, occasione di guadagno. È la dialettica eterna tra arte e commercio, tra integrità e sopravvivenza, che i Coen mettono in scena con una precisione chirurgica e un umorismo nerissimo.
A proposito di Davis è un'elegia. È un'ode all'artista che non ce l'ha fatta, al precursore dimenticato, al talento puro che non basta. È un film sulla natura ciclica dell'auto-sabotaggio, un ritratto di un momento storico liminale, quello subito prima della grande esplosione culturale degli anni Sessanta. Llewyn Davis è un fantasma che vaga in un mondo che sta per nascere, ma in cui per lui non ci sarà posto. La sua storia non ha un arco, ma un cerchio. Ogni porta che si apre conduce a un corridoio che riporta al punto di partenza. Non c'è catarsi, non c'è lezione imparata. C'è solo l'eco di una canzone meravigliosa che si perde nel freddo dell'inverno di New York e un uomo che si rialza dalla polvere del vicolo, pronto a ricominciare il suo giro di giostra. E mentre si allontana, sentiamo la sua voce nella nostra testa: "Hang me, oh hang me... I've been all around this world". E sappiamo, con una certezza che spezza il cuore, che continuerà a girare in tondo per sempre.
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