A Real Pain
2024
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Regista
Un viaggio nella memoria assomiglia spesso a un maldestro tentativo di riassemblare un vaso rotto con la colla sbagliata. I pezzi non combaciano mai perfettamente, le crepe restano visibili e il risultato è una testimonianza più della rottura che dell'oggetto originale. Jesse Eisenberg, alla sua seconda regia, sembra aver interiorizzato questa verità fragile e dolorosa, costruendovi attorno un'opera di rara intelligenza emotiva e formale come "A Real Pain". Il film si presenta con l'abito dimesso della commedia indie americana on the road – due cugini agli antipodi in viaggio catartico – ma sotto la superficie pulsa un cuore nero, pesante come la storia stessa, un cuore che batte al ritmo sincopato di un trauma che non è personale, ma ereditato.
David e Benji, interpretati dallo stesso Eisenberg e da un Kieran Culkin in stato di grazia, sono due facce della stessa medaglia ammaccata dell'identità ebraica americana post-generazionale. David è l'ansia fatta persona, un architetto della ragione che cerca di imporre ordine al caos del passato attraverso la conoscenza, le date, i fatti. È l'intellettuale che crede di poter comprendere l'orrore incasellandolo, leggendo la guida turistica prima di arrivare al campo di concentramento. Benji, al contrario, è il caos incarnato. Un agente del disordine, un performer compulsivo la cui esuberanza borderline nasconde un abisso di dolore inarticolato. Il suo approccio alla vita e al viaggio è una raffica di battute inappropriate, gesti plateali e una disperata, quasi infantile, ricerca di attenzione. È il fool shakespeariano catapultato in un tour dell'Olocausto, un trickster che usa l'ironia come un lanciafiamme per tenere a distanza l'insostenibile peso della realtà.
Il loro viaggio in Polonia per onorare la nonna recentemente scomparsa, una sopravvissuta, diventa il palcoscenico di questo scontro filosofico e temperamentale. Non è un semplice viaggio, ma una "Heritage Tour", una forma di turismo memoriale che il film osserva con uno sguardo acuto e mai giudicante. Il gruppo che li accompagna è un microcosmo di approcci alla Storia: c'è la coppia di anziani sinceri, il divorziato in cerca di connessioni, la giovane donna che fotografa tutto. Eisenberg non li ridicolizza; piuttosto, li usa per interrogarsi su una questione fondamentale del nostro tempo: come ci si rapporta a una tragedia di cui non si è stati testimoni diretti ma di cui si portano le cicatrici genetiche e culturali? È possibile provare un dolore autentico per qualcosa che si conosce solo attraverso i libri e i musei? Il film naviga queste acque insidiose con la grazia di un equilibrista, mettendo in scena la mercificazione del dolore senza cinismo, ma con una malinconia profonda. La visita al campo di Majdanek, girata con un rispetto quasi documentaristico, non è il culmine urlato del dramma, ma un momento di silenzio assordante in cui le performance dei due protagonisti si sgretolano, lasciando emergere la nuda vulnerabilità.
La dinamica tra Eisenberg e Culkin è il motore immobile del film. Richiama alla mente le coppie disfunzionali dei migliori road movie, da "Sideways" di Alexander Payne a "Withnail & I" di Bruce Robinson, ma qui il vino e l'alcol sono sostituiti dal peso ineluttabile della Storia. Se in "Sideways" il paesaggio della California vinicola era lo sfondo di una crisi di mezza età, qui le pianure polacche, i boschi silenziosi e le città ricostruite sono personaggi attivi, custodi muti di un'assenza che è più presente di qualsiasi monumento. La regia di Eisenberg, coadiuvata dalla fotografia livida e poetica di Michał Dymek, cattura questa sensazione con una precisione quasi sebaldiana. Come nei pellegrinaggi letterari di W.G. Sebald, in particolare in "Austerlitz", il paesaggio non è mai solo uno sfondo, ma un archivio di tracce, un testo da decifrare dove il presente è costantemente infestato dai fantasmi del passato. Un semplice binario ferroviario o la facciata di un palazzo a Varsavia non sono mai solo quello che sembrano; sono portali verso un'altra dimensione temporale, e i personaggi, come noi, possono solo intuirne la portata.
Kieran Culkin offre una performance che trascende la semplice recitazione per diventare una tesi vivente sulla natura del dolore. Il suo Benji è un'evoluzione naturale e al contempo una sovversione del Roman Roy di "Succession". L'energia caustica, la battuta fulminante, il sarcasmo come scudo sono gli stessi, ma qui sono spogliati del potere e della ricchezza, e rivelano la loro vera origine: una disperata incapacità di gestire il lutto. Benji non può piangere, e allora fa ridere. Non può confrontarsi con l'enormità della tragedia, e allora la ridimensiona con una performance da cabaret. È un atto di sabotaggio continuo, non solo del tour, ma del processo di elaborazione del lutto stesso. In una delle scene più potenti, mentre un sopravvissuto racconta la sua storia, Benji si mette a fare foto inopportune, un gesto che sembra di una crudeltà inaudita ma che, nel contesto del suo personaggio, è un grido d'aiuto, un tentativo di rompere un'atmosfera così carica di sacralità da risultargli soffocante.
Eisenberg, dal canto suo, gioca di sottrazione. Il suo David è il punto di vista dello spettatore razionale, colui che cerca un significato, una narrazione coerente. Ma il film, saggiamente, gliela nega. La Storia non è una lezione da imparare a memoria, e il dolore non è un'equazione da risolvere. Il suo percorso è quello di accettare che ci sono domande a cui non si può rispondere e che il legame con il cugino, per quanto esasperante, è l'unica cosa tangibile e reale in un mondo di fantasmi. È un film meta-testuale nella sua stessa essenza: un attore-regista noto per i suoi personaggi nevrotici e iper-verbali dirige se stesso in un ruolo simile, ma lo costringe a confrontarsi con qualcosa di talmente grande da rendere le parole inutili.
"A Real Pain" evita con cura la trappola del film "sull'Olocausto". Non pretende di spiegare l'inspiegabile né di offrire facili catarsi. La sua grandezza risiede proprio nel suo focus apparentemente minore: il modo in cui il macigno della Storia si rifrange nel prisma delle piccole, imperfette relazioni umane. È un film sulla "postmemoria", quel concetto coniato da Marianne Hirsch per descrivere la memoria di seconda generazione, un'eredità fatta di storie, immagini e silenzi. David e Benji non hanno vissuto l'orrore, ma l'orrore vive in loro, in modi diametralmente opposti. David cerca di dargli una forma, Benji cerca di farlo esplodere. Il film non suggerisce quale approccio sia giusto, ma mostra come entrambi siano risposte umane, troppo umane, all'inconcepibile.
Il finale, agrodolce e aperto, è di una bellezza struggente. Non c'è una riconciliazione forzata, nessuna epifania risolutiva. C'è solo un momento di quiete, un gesto di affetto impacciato in una stazione ferroviaria che sembra sospesa nel tempo. È il riconoscimento che il vero lascito non è il trauma, ma il legame che sopravvive nonostante il trauma. "A Real Pain" è una sinfonia da camera suonata tra le rovine di una cattedrale, un'opera che riesce a essere esilarante, devastante, profonda e incredibilmente onesta. Jesse Eisenberg si conferma non solo un attore generazionale, ma un autore con una voce precisa e necessaria, capace di raccontare il dolore del mondo attraverso la crepa quasi invisibile nell'anima di un singolo individuo. E in quella crepa, trova una verità universale.
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