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Una Separazione

2011

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Quinta opera del regista iraniano Asghar Farhadi vincitrice dell’Orso d’Oro a Berlino. Questa consacrazione internazionale non è stata un fulmine a ciel sereno, ma il coronamento di un percorso autoriale che Farhadi aveva iniziato a delineare con opere come About Elly e Fireworks Wednesday, dove già emergeva la sua peculiare abilità nel dissezionare la menzogna e il segreto come catalizzatori di drammi quotidiani e nel ritrarre la complessità delle relazioni umane in un Iran contemporaneo.

Un film che si rivela come un delicato affresco di un Iran sfibrato nelle connessioni emotive e nel tessuto sociale, un Paese che, sotto la superficie di una modernità ambita e spesso solo agognata, cova le lacerazioni profonde di tradizioni radicate e disuguaglianze latenti. Farhadi non si limita a ritrarre un microcosmo familiare, ma lo eleva a sineddoche di un intero sistema-Paese, un prisma attraverso il quale osservare le tensioni interne di una società in bilico.

E appunto questi due temi vengono portati avanti nel film con ambivalente focalizzazione: da un lato lo sgretolamento del rapporto coniugale tra il protagonista Nader e la indipendente moglie Simin che desiderando espatriare si separa dal marito, dall’altro la kafkiana vicenda giudiziaria che lo vede implicato per aver (o NON aver) spinto la badante del padre malato facendola cadere dalle scale e perdere il bambino che portava in grembo. L'aggettivo "kafkiana" qui non è casuale: il labirinto burocratico e morale in cui Nader si trova intrappolato evoca l'assurdità e l'insondabile opacità della giustizia descritta da Kafka. Non si tratta tanto di accertare una verità fattuale inoppugnabile, quanto piuttosto di navigare un mare di percezioni soggettive, di verità parziali, di menzogne pietose e di interpretazioni religiose che si scontrano, rivelando l'impossibilità di una risoluzione univoca in un contesto così stratificato. Ogni testimonianza è un tassello che deforma o conferma la precedente, un gioco di specchi che riflette l'incertezza epistemologica di una realtà multiforme, un interrogativo ontologico sulla natura stessa della verità in un'epoca di frammentazione.

Una vicenda filmata e raccontata con una sobrietà veristica che confina con il documentario, una scelta stilistica che ricorda il rigore quasi clinico dei fratelli Dardenne o l'urgenza neorealista di certi capolavori del cinema italiano del dopoguerra, ma con un taglio inquietante che serpeggia lungo la spina dorsale della narrazione rendendola indecifrabilmente instabile, quasi una non perfetta messa a fuoco di una banale inquadratura che meriterebbe ben altra esposizione focale. Questo approccio registico, caratterizzato dall'uso quasi esclusivo della macchina a mano, da lunghi piani sequenza che seguono i personaggi in spazi angusti e da una illuminazione naturale, immerge lo spettatore in una claustrofobica intimità con i personaggi, esasperando la tensione latente e amplificando il senso di urgenza di ogni dialogo, di ogni sguardo. Non c'è un'unica "verità" oggettiva cui appigliarsi, ma un costante invito a dubitare, a empatizzare, a sospendere il giudizio, come se lo spettatore stesso fosse chiamato a sedere al banco dei giurati di questo tribunale morale.

Le due vicende si intrecciano fino a tessere il ritratto di un Paese dilaniato tra le forze occidentali di modernizzazione, rappresentate dalla lucida e pragmatica Simin che desidera un futuro di maggiori opportunità per la figlia Termeh fuori dai confini nazionali, e l’oppressivo catafalco della tradizione e delle sue impalcature morali e religiose, incarnato dalla pietà filiale di Nader ma soprattutto dalla disperazione e dalla fede incrollabile di Razieh e del marito Hodjat, esponenti di una classe sociale più umile e profondamente radicata nella religiosità sciita. Questa dicotomia non è mai manichea; non ci sono buoni o cattivi in senso assoluto. Ogni personaggio è mosso da una propria, inconfutabile, seppur a volte errata, logica interna, da principi etici che trovano giustificazione nella loro visione del mondo. La tragedia scaturisce proprio dalla reciproca incomprensione di queste visioni, dalla collisione di codici morali e di priorità esistenziali, dalla dolorosa difficoltà di comunicare e di trovare un terreno comune in un contesto di profonde disparità sociali ed economiche.

La bravura del cast è altrettanto cruciale: la recitazione è di una mimetica naturalezza che sfiora l'improvisazione, con interpreti quali Payman Maadi (Nader) e Leila Hatami (Simin) che incarnano con rara intensità la complessità emotiva dei loro personaggi, e l'eccezionale Sareh Bayat (Razieh) che dà volto alla dignità e alla disperazione della condizione femminile e proletaria, mentre Shahab Hosseini (Hodjat) esplode con una furia viscerale che svela la sua fragilità. Anche i giovani interpreti, Sarina Farhadi (figlia del regista, Termeh) e Kimia Hosseini (Somayeh), sono straordinari nel portare il peso della tragedia degli adulti sulle loro giovani spalle, fungendo da bussola morale e da silenziosi testimoni di una frattura generazionale e sociale che il film mette impietosamente in luce.

Una storia avvincente, mai tediosa, che ci racconta di un Paese lontano e delle sue ineludibili contraddizioni, ma che soprattutto ci interroga sulla natura della verità, sulla responsabilità individuale e collettiva e sull'impossibilità di un giudizio definitivo in un mondo intriso di sfumature. Farhadi ci offre un'opera di rara potenza drammatica e di profonda risonanza etica, che trascende la sua cornice geografica e culturale per divenire una parabola universale sulla fragilità dei legami umani e sull'eterna ricerca di giustizia in un mondo imperfetto, lasciando nello spettatore un'eco persistente e perturbante che lo accompagnerà ben oltre la sala cinematografica. Un capolavoro della contemporaneità che ha ridefinito il cinema iraniano agli occhi del mondo.

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