Una Moglie
1974
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Regista
Diciamolo pure, John Cassavetes è forse il regista più sottovalutato dell’intero panorama cinematografico americano. Non una semplice affermazione di nicchia, ma una constatazione lapidaria per un cineasta che, ben prima che il concetto di "indipendente" diventasse un'etichetta di marketing, incise la propria visione con una coerenza e una brutalità emotiva che pochi altri hanno eguagliato. La sua era una lotta costante contro le convenzioni di Hollywood, una ricerca incessante della verità umana attraverso l'esplorazione dell'ordinario, delle imperfezioni, delle sfumature psicologiche che la grande macchina del sogno americano preferiva occultare. Cassavetes, padre spirituale di un cinema verité americano che anticipò tendenze e linguaggi, è un autentico precursore, la cui influenza si riverbera ancora oggi nelle opere di registi votati all'autorialità più cruda e viscerale.
Già attore in Rosemary’s Baby, dove la sua presenza scenica contribuiva a intessere il torbido substrato psicologico del capolavoro di Polanski, è stato in seguito autore e regista di film meravigliosi come questo “A Woman Under the Influence”, titolo amaramente ironico che il distributore italiano ha allegramente decapitato in un titolo con il solo soggetto, "Una Moglie". Questa scelta di traduzione, apparentemente innocua, tradisce in realtà la complessa ambiguità del titolo originale: "A Woman Under the Influence" evoca infatti non solo lo stato di alterazione psichica, ma anche l'influenza esercitata da una società soffocante, dalle aspettative matrimoniali e dalla pressione di conformarsi a un ideale di donna e madre. L'omissione di "Under the Influence" spoglia il film di una delle sue chiavi interpretative più potenti, riducendo un'opera multistrato a una mera cronaca di un'esistenza. È un film che si inserisce perfettamente nella sua filmografia, coerente con le esplorazioni della fragilità umana già visibili in opere come Faces o Minnie and Moskowitz, ma che qui raggiunge un'intensità quasi insostenibile.
Un’opera in cui deperimento psichico e afasia dialogica non sono solo temi, ma divengono il linguaggio stesso attraverso cui Cassavetes indaga le profondità dell'animo umano. L'occhio della sua macchina da presa non cerca facili risoluzioni, né patologie cliniche da incasellare, bensì le manifestazioni più intime e disordinate di un disagio esistenziale. Non è un caso che la sua estetica, fatta di lunghi primi piani, camera a mano nervosa e dialoghi che spesso si sovrappongono e si frammentano, ricordi per certi versi il realismo disadorno di certo cinema neorealista italiano o la Nouvelle Vague francese, ma con una sensibilità tutta americana, meno intellettuale e più istintiva. La sensazione è quella di assistere a una tragedia domestica che si svolge in tempo reale, senza filtri o edulcorazioni, dove il non detto, le pause imbarazzanti e le esplosioni incontrollate rivelano più di mille discorsi.
Bravi i due attori principali: Peter Falk e Gena Rowlands, la loro sintonia sul set è palpabile, quasi un’estensione naturale della loro vita personale e professionale – Rowlands era, dopotutto, la moglie di Cassavetes, una musa e una collaboratrice artistica insostituibile. Questa intesa profonda, questa conoscenza reciproca che trascendeva la semplice recitazione, ha permesso loro di dare vita a personaggi di una complessità disarmante. Gena Rowlands è una Mabel Longhetti indimenticabile, capace di oscillare tra la più tenera vulnerabilità e scatti di una disperazione quasi animale, in una performance che è diventata un punto di riferimento per la recitazione al femminile. Non interpreta la follia, ma la vive, la respira, la rende tangibile in ogni gesto sgraziato, in ogni sguardo perso. Peter Falk, dal canto suo, non si limita a interpretare Nick come un marito rozzo e incomprensivo, ma gli infonde una dolorosa umanità, quella di un uomo che ama la sua famiglia ma è completamente impreparato ad affrontare il baratro emotivo in cui sua moglie sta precipitando. La loro dinamica è un balletto di amore, frustrazione, compassione e incapacità di comunicare, un microcosmo di tante relazioni reali.
La storia narra della deriva emotiva di una tranquilla moglie della medioborghesia americana, che viene ricoverata in un centro psichiatrico in seguito ad una forte depressione. Il contesto storico e culturale degli anni Settanta è fondamentale per comprendere appieno il dramma di Mabel: un'epoca in cui le donne della classe media erano ancora incatenate a ruoli sociali predefiniti, dove la "perfetta casalinga" era l'unico modello accettabile e qualsiasi deviazione da esso era vista come patologia. Mabel non è "pazza" nel senso clinico del termine; è forse troppo sensibile, troppo viva, troppo autentica per un mondo che le imponeva di rimanere silente, composta, invisibile. La sua crisi è un grido di liberazione, distorto e doloroso, contro la gabbia dorata della domesticita, un urlo che risuona con le prime, timide avvisaglie del movimento femminista, quando il disagio esistenziale femminile iniziava a essere politicizzato e riconosciuto.
Al suo ritorno tenterà con tutte le sue forze di riprendersi la sua famiglia ma troverà un cambiamento radicale in suo marito, o forse in lei stessa. Questa ambiguità, "o forse in lei stessa", è la cifra stilistica di Cassavetes: non ci sono risposte facili, non c'è un colpevole univoco. Il cambiamento è intrinseco alla natura umana, al dolore, al tentativo di sopravvivere. Il film rifiuta categoricamente qualsiasi diagnosi psicologica esterna, concentrandosi invece sull'esperienza vissuta della malattia mentale all'interno di un nucleo familiare, spingendo lo spettatore a confrontarsi con l'irrazionale e il non detto.
Dovrà anche scontrarsi con il proprio sfasamento rispetto al mondo circostante, la società sembra divenire una minaccia incombente e aleggia in lei un cupo straniamento da qualsiasi cosa. Questo "straniamento" non è solo interiore; è la reazione a un mondo che la giudica, che non la comprende, che la vuole ricondurre a una "normalità" che per lei è una prigione. La società, con le sue norme implicite e le sue aspettative soffocanti, diventa il vero antagonista, una forza invisibile ma onnipresente che la spinge sempre più ai margini.
L’aiuteranno nell’impresa di ritrovare una dimensione umana i suoi tre figli. I bambini, nella loro innocenza e la loro disarmante capacità di accettare la madre per quello che è, senza giudizio, rappresentano l'unica vera ancora di salvezza per Mabel. Sono gli unici capaci di vedere oltre la sua "follia", di percepire la fragilità e l'amore che si cela dietro i suoi gesti più sconcertanti. Il loro amore incondizionato, le loro piccole mani che le cercano, le loro voci che la chiamano, sono l'unico faro in un oceano di smarrimento.
L’introspezione psicologica è spinta al massimo livello creando una sorta di tunnel narrativo tra personaggio e spettatore. Cassavetes non ci mostra la storia di Mabel, ce la fa vivere. Attraverso il suo stile quasi documentaristico, la telecamera a mano che segue ogni respiro, ogni tic, ogni esplosione, lo spettatore è catapultato nell'intimo della psiche della protagonista. Diventiamo involontari voyeur della sua sofferenza, testimoni scomodi di un dramma che ci avvolge e ci scuote, rendendo impossibile distogliere lo sguardo. È un cinema che non offre vie di fuga, ma che costringe all'empatia e alla riflessione.
Cassavetes ci mette in mano le emozioni e i pensieri di questa donna, la trasforma in una bambola di cristallo in cui è possibile distinguere ogni singola pulsione. Una "bambola di cristallo" non solo per la sua fragilità e trasparenza emotiva, ma anche per la costante minaccia di andare in mille pezzi, per la sua precarietà esistenziale. La sua è una performance nuda e cruda, dove ogni nervo è scoperto, ogni emozione è portata alla superficie con un'onestà brutale. Mabel è esposta, vulnerabile, e in questa vulnerabilità risiede tutta la sua sconvolgente, indimenticabile umanità.
Un film denso di rabbia repressa ma anche di malinconica dolcezza, un'opera che non lascia indifferenti, che si insinua sotto la pelle e continua a interrogare ben oltre i titoli di coda. "Una Moglie" non è solo un film sulla malattia mentale, ma un'esplorazione profonda della condizione umana, dei limiti della comunicazione, dell'amore e della solitudine. Un capolavoro che rimane impresso, un pugno nello stomaco e un abbraccio al tempo stesso, e che conferma Cassavetes come uno dei più grandi indagatori dell'animo umano mai apparsi sul grande schermo.
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