
Racconto di due Stagioni
2023
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Regista
Un giovane insegnante, Samet, spera di essere assegnato alla agognata Istanbul dopo il servizio obbligatorio in un piccolo, sperduto villaggio dell'Anatolia orientale, sepolto per mesi sotto una coltre di neve e di silenzio. Questa premessa, apparentemente semplice, è il punto di partenza per quest'opera di Nuri Bilge Ceylan, un film che, come il suo paesaggio, è al contempo di una bellezza sconfinata e di una durezza quasi insopportabile. Racconto di due Stagioni (titolo originale molto più efficace, Kuru Otlar Üstüne, "Sull'erba secca") non è una storia di formazione, né un dramma sociale convenzionale. È un'immersione di oltre tre ore nell'inverno dell'anima di un antieroe, un'elegia novelistica sulla noia, il cinismo e la disperata, e forse vana, ricerca di un senso in un luogo che sembra essere stato dimenticato da Dio e dagli uomini.
Nuri Bilge Ceylan è, senza dubbio, il più importante autore del cinema turco contemporaneo, un regista che ha saputo creare un linguaggio personalissimo, capace di dialogare con i grandi maestri europei pur rimanendo profondamente radicato nella geografia e nella psiche della sua terra. Il suo cinema è un cinema della durata, della pazienza, che si nutre di dialoghi torrenziali e di silenzi carichi di significato. Se il suo uso del paesaggio come specchio dell'anima e la sua esplorazione dell'ennui esistenziale lo avvicinano a Michelangelo Antonioni, la sua vera anima letteraria è quella di Anton Čechov. Samet, il protagonista, è un personaggio puramente cechoviano: un intellettuale cinico e frustrato, intrappolato nella provincia, che si sente superiore all'ambiente che lo circonda ma è incapace di compiere un gesto che lo liberi dalla sua stessa apatia. Le lunghe scene di conversazione, spesso attorno a un tavolo, dove si discute di politica, arte e vita con una miscela di idealismo e rassegnazione, sembrano uscite direttamente da un'opera teatrale del grande drammaturgo russo. Ceylan, come Čechov, ha una straordinaria capacità di cogliere le sfumature più sottili dell'animo umano, la commedia e la tragedia che si nascondono dietro l'apparente banalità del quotidiano.
La genialità di Ceylan, e ciò che eleva il film a capolavoro, risiede nella sua raffinata e a tratti spiazzante consapevolezza meta-testuale. Samet è un fotografo amatoriale. La sua macchina fotografica è il suo scudo, il filtro attraverso cui osserva una realtà che non vuole veramente toccare. Fotografa i volti degli abitanti del villaggio, in particolare dei suoi studenti, trasformandoli in soggetti estetici, in opere d'arte. È un modo per creare distanza, per esercitare una forma di controllo su un mondo che lo fa sentire impotente. Il film è costellato da questi scatti, ritratti magnifici che congelano la vita e la bellezza in un istante, contrastando con la lenta e stagnante narrazione principale. Ma Ceylan spinge questa riflessione sul rapporto tra realtà e rappresentazione a un punto di rottura in una scena memorabile e audace. Nel mezzo di un confronto teso nel suo appartamento, Samet si alza, si dirige verso una porta e, invece di entrare in un'altra stanza, esce letteralmente dal set. Lo vediamo camminare tra le luci, i cavi e i membri della troupe, in uno studio cinematografico. È un gesto brechtiano di una potenza inaudita, un deliberato squarcio nel velo della finzione. In quel momento, il regista ci dice: "Ricordatevi che state guardando un film. Questo personaggio è un attore, questa stanza è una scenografia, questo dolore è una costruzione". Questa rottura della quarta parete non è un vezzo intellettualistico; è una mossa filosofica che si lega indissolubilmente alla psicologia del protagonista. Samet è un uomo che si sente un attore nella sua stessa vita, un personaggio intrappolato in un copione che non ha scritto. La scelta di Ceylan di mostrarci la finzione della sua opera ci costringe a interrogarci sulla natura della verità, sia quella del film che quella, ambigua e forse inaffidabile, del suo protagonista.
La cifra estetica di Ceylan si completa con la sua visione pittorica del paesaggio anatolico. Le sue inquadrature ampie, che mostrano minuscole figure umane perse nell'immensità di una pianura innevata, hanno la stessa potenza sublime e malinconica dei paesaggi di Caspar David Friedrich. Sono immagini che parlano della solitudine dell'uomo di fronte a una natura magnifica ma indifferente. Il film non è solo un "racconto di due stagioni"—il lungo e spietato inverno e la breve, quasi riluttante, esplosione di vita della primavera—, ma una profonda meditazione sulla condizione umana. È un'opera che ci chiede di guardare da vicino l'erba secca che spunta da sotto la neve, per trovarvi non un segno di morte, ma la promessa ostinata e inesorabile di un'altra, possibile stagione.
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