L'Asso nella Manica
1951
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Regista
Wilder a volo radente sul labirinto dell’ambizione umana ne documenta da posizione privilegiata ogni sordido recesso, con una lucidità chirurgica e una spietata onestà che caratterizzano il suo cinema più incisivo. Questa non è solo la storia di un uomo, ma la vivisezione di una società che, in tempi di pace e relativa prosperità, rischia di smarrire la bussola morale nel frenetico inseguimento del clamore e del profitto.
Per mezzo di un’opera che destò non pochi interrogativi sul ruolo della stampa in un paese democratico – e che, ancor oggi, risuona con agghiacciante attualità nel panorama dell’informazione globale – il regista austriaco estrae dal cilindro un personaggio che incarna l’archetipo del fallimento e del cinismo. Il film, intitolato negli Stati Uniti "The Big Carnival", già nel suo titolo alternativo rivelava la profonda e grottesca verità insita nella narrazione: la tragedia umana trasformata in spettacolo da baraccone.
Chuck Tatum è un giornalista dalla lingua affilata e dalla moralità elastica, allontanato dal grande circuito giornalistico della metropoli a causa della sua disonestà professionale e relegato in un piccolo quotidiano di Albuquerque, un esilio volontario ma forzato in un deserto tanto fisico quanto morale. L’uomo vede frustrato ogni suo progetto di carriera, ogni brama di riscatto che lo rode dall'interno come un acido corrosivo, ma intravede in un avvenimento di cronaca locale la possibilità di dare una nuova e devastante spinta alle sue ambizioni professionali.
Un operaio è infatti rimasto intrappolato in una miniera del Nuovo Messico, un incidente banale che la provvidenza beffarda o un destino cinico gli mette tra le mani. Tatum si getta a capofitto nella storia, trasformandola da semplice sfortunato evento in un epico pezzo di richiamo, innescando una miccia che farà esplodere una tragedia personale in un circo mediatico senza precedenti. Non si limita a raccontare i fatti; li plasma, li distorce, rallenta deliberatamente i soccorsi pur di prolungare l'agonia e alimentare l'interesse pubblico, trasformando la speranza in uno strumento di manipolazione. Il sito della miniera diviene così un'attrazione turistica di massa, una sagra dell'orrore dove si vendono souvenir, si balla, si mangia pop-corn, e la sofferenza dell'uomo intrappolato si dissolve nel frastuono della folla, nell'indifferenza di chi cerca solo un'emozione a buon mercato. Ma il circo mediatico che si scatenerà intorno alla vicenda, un vortice di morbosità e opportunismo, travolgerà anche lui, in un'inevitabile nemesi che Wilder, con la sua inconfondibile vena tragica, non risparmia a nessuno dei suoi personaggi corrotti.
Una menzione d'onore, anzi, un'autentica consacrazione, spetta a Kirk Douglas, la cui recitazione è non solo all'altezza della sceneggiatura, ma ne esalta ogni sfumatura, ogni contraddizione. Douglas incarna Chuck Tatum con un'intensità quasi dolorosa, un carisma luciferino che rende il personaggio ripugnante e affascinante al tempo stesso. Il suo sguardo, talvolta sprezzante, talvolta disperato, la sua postura di costante sfida al mondo, la sua capacità di veicolare il cinismo più profondo celato dietro una facciata di sfrontata sicurezza: tutto concorre a rendere Tatum un'icona del giornalismo senza scrupoli, un uomo che ha barattato la propria anima per il brivido di una prima pagina. È un'interpretazione magistrale che si colloca tra le vette della sua carriera, capace di imprimere nel pubblico il marchio di una solitudine autoimposta e di una condanna inappellabile.
In filigrana, eppure con una presenza incombente, l'occhio sempre vigile di Wilder plasma la storia senza alcun infingimento morale, senza concedere un barlume di redenzione facile o una consolazione forzata. Non c'è didascalismo, ma solo un'implacabile oggettività che denuda la cronaca e lascia allo spettatore ogni eventuale implicazione morale, ogni riflessione sulla corruzione dell'anima umana e delle istituzioni. Il regista, con il suo passato di testimone delle propagande e delle distorsioni europee, riversa in questo film la sua profonda sfiducia nella natura umana quando esposta alle tentazioni del potere e della celebrità. "L'Asso nella Manica" è un noir psicologico mascherato da dramma giornalistico, dove il vero mistero non è chi ha commesso un crimine, ma fino a che punto un uomo è disposto a spingersi per riscattare un fallimento, e quanto una società sia propensa a glorificare la mediocrità e la crudeltà travestite da impresa. Il suo insuccesso commerciale all'epoca della sua uscita, forse perché troppo scomodo e profetico, non fa che amplificarne oggi il genio, confermandolo come uno dei capolavori più amari e incisivi di Billy Wilder, un grido di avvertimento che il tempo non ha saputo attutire.
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