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Addio Mia Concubina

1993

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Regista

Per certi versi sorprendente quest’opera di Chen Kaige, che ha ammaliato la giuria di Cannes strappando la Palma d’Oro, ex aequo con Lezioni di Piano, di Jane Campion. Un trionfo che non fu solo un riconoscimento al genio registico, ma un'affermazione potente per il cinema cinese d'autore sul palcoscenico globale, proiettando Chen Kaige e l'emergente "Quinta Generazione" di cineasti – di cui era già figura di spicco insieme a Zhang Yimou – verso una notorietà internazionale in un'epoca di crescente interesse occidentale per le complesse narrazioni provenienti dall'Estremo Oriente. Addio Mia Concubina (titolo originale Bàwáng Bié Jī) si erge così a vertice di un cinema che coniuga grandiosità epica e intimismo psicologico, storia millenaria e dramma personale.

Il protagonista indiscusso del film è il teatro cinese di inizio novecento, il Jingju o Opera di Pechino, che narrativamente costituisce la cornice in cui le vicende del film prendono atto. Ma la sua funzione è ben più profonda di un semplice fondale scenico: il Jingju è un pulsante organo vitale, un personaggio a sé stante la cui disciplina ferrea e i cui rituali ancestrali plasmano le vite dei protagonisti. Dalle crudeli sessioni di allenamento che forgiano i corpi e le anime dei giovani apprendisti, alle prove estenuanti, ai codici immutabili della recitazione e del canto, l'opera è la matrice da cui scaturisce ogni dramma, ogni gioia effimera, ogni dolorosa rivelazione. Il film ci immerge in un mondo dove l'arte è una vocazione totalizzante, che esige sacrificio e dedizione assoluta, spesso a scapito della propria individualità.

La storia è quella di due amici, Duan Xiaolou e Cheng Dieyi, che fin da bambini intraprendono la dura carriera dell’attore teatrale nella Cina di inizio secolo, un periodo di immensa turbolenza storica che si riflette implacabilmente sulle loro esistenze. La loro crescita, le loro esperienze formative, le loro prime performance, sono inscindibilmente legate all'ambiente rigoroso e a tratti brutale della scuola d'opera, che li modella in interpreti eccezionali: Xiaolou, il possente Wusheng (ruolo maschile guerriero), e Dieyi, il delicato Dan (ruolo femminile). Le carriere e le vite dei due amici saranno poi separate e riunite, ma sempre drammaticamente segnate, dal vortice di eventi che travolge la Cina: dalla fine della dinastia Qing e l'epoca dei signori della guerra, all'occupazione giapponese, all'avvento del comunismo, fino alla devastante Rivoluzione Culturale. Il film dipinge un affresco storico mozzafiato, mostrando come le forze macro-storiche possano schiacciare il destino individuale.

I due si ritroveranno dopo molti anni, chiamati ad interpretare la loro opera d'elezione, quella che dà il titolo al film: l'iconica “Addio mia Concubina”, nelle vesti dei due ruoli principali, quello dell’imperatore Xiang Yu e della sua concubina favorita, Yu Ji. Un ruolo, quello di Yu Ji, che Cheng Dieyi, interpretato con sublime intensità da Leslie Cheung, incarna con una dedizione talmente viscerale da non riuscire più a distinguere il sé dall'interpretazione, il palcoscenico dalla vita.

L’amicizia tra i due, seguendo il canovaccio dell'opera e della vita, sfocerà per Dieyi in irrefrenabile passione. Questa non è una semplice inclinazione, ma una totale identificazione, una fusione mistica con la sua parte e con il suo compagno di scena. Le cose si complicheranno ulteriormente quando uno dei due, Xiaolou, si innamorerà di una bellissima e pragmatica prostituta, Juxian (interpretata da una straordinaria Gong Li), la quale, con la sua presenza dirompente, irrompe nel sacro sodalizio teatrale e sentimentale dei due uomini, scuotendo le loro certezze e portando a galla tensioni latenti. Gong Li, con la sua magnetica presenza, regala a Juxian uno spessore che la rende ben più di una mera figura di disturbo, ma una donna forte, resiliente e tragica, essa stessa vittima delle circostanze storiche e del triangolo emotivo in cui si trova.

Il labile confine che divide Realtà e palcoscenico si frantuma fino al compenetrarsi dei due piani sensoriali, un tema profondamente pirandelliano che qui assume risonanze epiche. La finzione stringe in un abbraccio mortale la vita dei due attori trascinandoli in un vortice di pulsioni a cui non possono resistere. Cheng Dieyi non "recita" la concubina Yu Ji, lui è la concubina, con tutte le sue fragilità e la sua tragica lealtà. Questo blurring tra performance e identità, tra copione e destino, porta a una dimensione psicologica di sofferenza e ossessione in cui l'amore di Dieyi per Xiaolou si confonde con la sua devozione all'arte e al ruolo, rendendo la sua figura una delle più toccanti e indimenticabili del cinema mondiale.

La sottile dimensione psicologica dei due amici è al centro dell’indagine di Kaige Chen che utilizza il teatro come meraviglioso pretesto per portare a termine il suo compito. Un linguaggio pirandelliano che metabolizza il teatro per farlo debordare nel Reale, una sorta di sterminato palcoscenico dove le emozioni tra narrato e vissuto si compenetrano fino a diventare una cosa sola. Il film è una meditazione profonda sull'identità, sulla sessualità, sull'amore non corrisposto e sulla distruzione dell'individuo da parte della storia e del fanatismo. Ogni ribaltamento politico è un nuovo atto di questo dramma umano e artistico, che vede i personaggi tradire, abiurare, disperarsi, pur di sopravvivere o, al contrario, morire per ciò in cui credono.

Un’opera di una raffinatezza stilistica senza eguali: patinata, lussuosa nella fotografia di Gu Changwei e nei costumi, densa di omaggi al teatro cinese e al suo rigido formalismo. Ogni inquadratura è un dipinto, ogni scena d'opera una festa per gli occhi, che restituisce la magnificenza e l'esotismo di un'arte millenaria, prima che fosse travolta dalla furia iconoclasta della Rivoluzione Culturale. Il film è una cronaca struggente non solo delle vite di due uomini, ma anche della lenta agonia e della rinascite di un'arte, il Jingju, e della nazione che l'ha generata. Addio Mia Concubina non è solo un film, ma un'epopea, una sinfonia visiva ed emotiva che risuona ben oltre l'ultima scena, lasciando un'impronta indelebile nella memoria dello spettatore e nel pantheon del cinema d'autore.

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