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Agente 007, Missione Goldfinger

1964

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Media: 4.50 / 5

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Probabilmente il solo film della serie di 007 che riesce a cogliere a pieno quel british sense of humour di Ian Fleming e a trasporlo sulla pellicola. Non è solo questione di battute sferzanti o di un umorismo asciutto, ma di una peculiare visione del mondo che permea ogni inquadratura: una sofisticata ironia che serve da baluardo contro il caos, un disincanto elegante che rende le minacce globali meno tetre e più, oserei dire, gestibili. Laddove altri capitoli della saga, anche con il medesimo Connery, vireranno talvolta verso un più semplice action o una gravitas eccessiva, Goldfinger mantiene una leggerezza quasi eterea, un equilibrio precario ma sublime tra la serietà della posta in gioco e il divertimento puro, quasi anarchico, della messa in scena. È il film che consolida il paradigma Bond, elevando l'agente da mero protagonista di spy-stories a icona pop in grado di definire un'epoca.

James Bond è alle prese con un losco magnate dell’oro che intende rivalutare il proprio patrimonio attaccando la riserva aurea di Fort Knox e rendendola inservibile. Auric Goldfinger non è un villain qualsiasi; è un archetipo, una gigantografia della megalomania capitalistica dell'era post-bellica, un uomo la cui ossessione per il metallo giallo trascende la mera avidità per sfociare in una sorta di perversione artistica, un desiderio di plasmare la realtà economica mondiale a propria immagine e somiglianza. La sua visione, distorta ma grandiosa, di innescare una "crisi aurea" non è solo un meccanismo narrativo, ma una satira acuta delle ansie geopolitiche del periodo, in un decennio in cui la stabilità economica globale era ancora un delicato equilibrio. Il suo piano, così audacemente semplice nella sua concezione distruttiva, lo rende memorabile quanto i suoi sicari, dall'indimenticabile Oddjob e il suo micidiale cappello a falda rinforzata, alla controversa ma indomita Pussy Galore, figura femminile che sfida e contemporaneamente rinforza certi stereotipi bondiani, aggiungendo un tocco di pulp audacia che all'epoca fece storcere qualche naso, ma che oggi riconosciamo come parte integrante del suo fascino sovversivo.

Memorabili alcune scene, una su tutte la partita di golf tra Goldfinger e Bond, con sostituzione fraudolenta di una pallina (“lei ha giocato una palla non sua alla buca 18”) e conseguenti gag a denti stretti tra i due contendenti. Questa sequenza è un microcosmo del film intero: un duello intellettuale e psicologico camuffato da innocente passatempo, dove l'eleganza sportiva maschera una brutale competizione. Ma l'acume narrativo di Hamilton non si ferma qui: come non citare la celeberrima scena del laser, il cui dialogo ("No, Mr. Bond, I expect you to die!") è entrato di diritto nell'Olimpo delle citazioni cinematografiche, definendo per sempre l'atteggiamento gelido e sprezzante del cattivo perfetto. O la sequenza nella stalla, con Bond immobilizzato e la minaccia palpabile di Pussy Galore e le sue 'pilotesse'. Ogni fotogramma trasuda un'estetica anni '60 senza tempo, un tripudio di gadget che non sono mai fini a se stessi ma sempre funzionali alla trama e, soprattutto, alla costruzione del mito Bond, elevando il design industriale a forma d'arte e il lusso a manifesto di un'epoca.

Hamilton trova forse l’autentico Bond con una regia leggera e ironica, screziata di ironia e meraviglia: le trovate scenografiche non divengono pretesto per costruire una storia ma ne divengono parte integrante non occludendone lo sviluppo narrativo. La mano di Guy Hamilton, al suo primo approccio con 007, è quella di un artigiano meticoloso e di un visionario al tempo stesso. Egli comprende che il successo di Bond non risiede solo nell'azione, ma nell'esagerazione stilistica, nella creazione di un universo patinato eppure tangibile. Fondamentale, in questo, è il contributo di Ken Adam, scenografo il cui genio creativo ha letteralmente inventato l'iconografia Bondiana: dagli interni avveniristici del quartier generale di Goldfinger con le sue trappole mortali, alla camera del laser, fino all'imponente Fort Knox ridisegnato per l'epica finale. Adam non costruisce semplicemente set, ma ambienti che sono personaggi a tutti gli effetti, elementi architettonici che narrano e amplificano il dramma, trasformando gli spazi in vere e proprie arene per l'ingegno e la distruzione. Il suo approccio "total design" eleva Goldfinger da semplice thriller a esercizio di stile, una sinfonia visiva che miscela modernismo, un pizzico di kitsch e una buona dose di fantasia futuristica, stabilendo uno standard per il blockbuster moderno.

Un plauso finale alla maschera maliziosamente serafica di Connery, l’unico e vero agente 007 che abbia mai calcato le scene di un set. La sua interpretazione è un capolavoro di sottrazione e carisma. Non è solo la fisicità atletica o la prontezza della battuta; è l'equilibrio quasi alchemico tra la brutalità latente del killer e la raffinatezza del gentiluomo, tra l'ironia sardonica e un certo fatalismo romantico. Connery incarna Bond non solo come personaggio, ma come una filosofia, un'attitudine: il suo sguardo, capace di passare dalla seduzione al gelo in un istante, la sua camminata fiera, il modo in cui manipola una pistola o un bicchiere di vodka martini. È il Bond che definisce l'archetipo, quello a cui tutti i successori saranno inevitabilmente paragonati. La sua "maschera maliziosamente serafica" non è una semplice espressione, ma la chiave di lettura di un personaggio che affronta minacce globali con un sopracciglio alzato e un sorriso sornione, suggerendo che, in fondo, l'universo è un palcoscenico per le sue avventure, e la vita un gioco da vincere con stile. Goldfinger non è solo un film; è l'apice di un'era, un manifesto di eleganza e adrenalina che continua a influenzare il cinema e l'immaginario collettivo, un'opera che ha scolpito per sempre il volto, l'anima e il vestito impeccabile di James Bond.

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