Alba fatale
1943
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Regista
Alba Fatale (The Ox-Bow Incident) è un'opera di una densità morale quasi insopportabile. È un film che si maschera da western solo per poter eseguire una vivisezione spietata dei miti fondativi dell'America. Uscito nel 1943, in un momento in cui gli Stati Uniti erano impegnati a combattere il totalitarismo all'estero, il regista William A. Wellman ebbe il coraggio, sostenuto da uno script teso e perfetto di Lamar Trotti, di puntare la telecamera verso l'interno, suggerendo che i meccanismi della tirannia—la mentalità della folla, la sospensione della legge in nome dell'urgenza, il pregiudizio che diventa sentenza—non erano un'esclusiva del nemico, ma un virus latente nella stessa democrazia. Il film è un saggio sulla fragilità del concetto di "civiltà", girato con l'urgenza di un bollettino e la precisione di una tragedia greca.
Wellman, un artigiano robusto e privo di fronzoli, qui compie un miracolo di anti-spettacolo. L'Ovest di Alba Fatale non ha nulla a che vedere con la vastità epica della Monument Valley di John Ford. L'ambientazione è claustrofobica, opprimente. La maggior parte dell'azione si svolge in interni bui, come il saloon dove la tensione si accumula come elettricità statica, o in esterni notturni dove la fotografia di Arthur Miller (che vinse la sua unica candidatura all'Oscar per questo lavoro) usa le ombre non per nascondere, ma per accusare. L'intera narrazione, che si svolge in un arco temporale contratto, quasi in tempo reale, assume la qualità di un incubo febbrile da cui i protagonisti, e noi con loro, non possono svegliarsi. La "frontiera", simbolo di libertà, diventa qui una trappola psicologica.
La struttura del film è una discesa metodica nell'irrazionale. Il catalizzatore è la notizia di un omicidio e di un furto di bestiame. La reazione della cittadina non è di dolore, ma di eccitazione rabbiosa. Il film è popolato da uomini annoiati, frustrati, che vedono nella formazione di una posse non un dovere civico, ma una forma di intrattenimento violento. La legge, incarnata dallo sceriffo assente, viene messa da parte con fastidio. A guidare la folla è Major Tetley (Frank Conroy), figura emblematica dell'autorità illegittima. Indossando i rimasugli della sua uniforme confederata, Tetley è un uomo mosso non dalla sete di giustizia, ma da una profonda insicurezza personale, un sadismo represso che sfoga sul figlio, Gerald Tetley (William Eythe), l'unica figura a mostrare una compassione considerata "debole". La posse diventa così un microcosmo sociale: un leader insicuro, un branco desideroso di violenza, e una minoranza di voci ragionevoli che vengono messe a tacere.
In questo calderone entrano i nostri protagonisti, Gil Carter (Henry Fonda) e Art Croft (Henry Morgan). Il casting di Fonda è un colpo di genio meta-cinematografico. Fonda era già l'incarnazione della coscienza morale americana (grazie a Ford). Qui, la sua coscienza è irritabile, passiva, cinica. Gil sa che quello che sta accadendo è sbagliato, ma la sua resistenza è fiacca, si lascia trascinare dagli eventi, diventando un testimone complice. La sua inazione è forse la colpa più grande del film. Non è l'eroe che ferma la folla; è l'uomo comune che, pur sapendo la verità, fallisce nel difenderla. È una critica devastante non solo alla mentalità del branco, ma anche alla passività dell'individuo "buono" che permette al male di accadere.
Il cuore nero del film è l'incontro con le vittime designate. La posse cattura tre uomini: Donald Martin (Dana Andrews), un giovane padre di famiglia; un vecchio mentalmente confuso; e Juan Martínez (Anthony Quinn). Il film è spietato nel mostrare come il pregiudizio sia il carburante della folla: la presenza di un "messicano" (così viene etichettato) è per molti una prova di colpevolezza sufficiente. La performance di Dana Andrews nel ruolo di Martin è straziante nella sua logica: non prega, non supplica, ma ragiona. Chiede solo ciò che la civiltà promette: un processo, l'arrivo dello sceriffo. Ma la logica è impotente contro la fede cieca della folla. La scena in cui a Martin viene concesso di scrivere una lettera alla moglie, mentre i suoi aguzzini discutono quasi annoiati della meccanica dell'impiccagione, è uno dei momenti più agghiaccianti del cinema americano.
Il finale è un pugno che toglie il fiato e nega ogni catarsi. La posse compie il suo atto, l'alba arriva, e con essa arriva lo sceriffo, portando la notizia che l'uomo assassinato è vivo e i veri colpevoli sono stati arrestati. La boria della folla si trasforma in un silenzio vuoto e malato. Wellman non ci dà un capro espiatorio; la colpa è collettiva, diffusa, indelebile. L'atto finale del film, che lo eleva da grande film a capolavoro, è la lettura della lettera di Donald Martin. Gil, il protagonista fallito, legge le parole della vittima ai sopravvissuti muti nel saloon. La lettera non è un appello alla vendetta, ma una profonda meditazione sulla legge, sulla responsabilità e sulla differenza tra giustizia e sentimento privato. È la voce della civiltà che parla dalla tomba. Alba Fatale è un film scomodo, necessario, un avvertimento perenne che la giustizia non è un istinto, ma una conquista intellettuale e morale faticosamente mantenuta.
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