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Niente di nuovo sul fronte occidentale

2022

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Per la prima volta il film originale e il suo remake entrano entrambi nel Canone. Certo è che non si poteva restare indifferenti davanti a questa magnifica, punitiva opera di Edward Berger tratta dall'omonimo romanzo di Remarque, prodotta da Netflix ed uscita per la prima volta direttamente sulla piattaforma digitale di streaming. È forse il paradosso più grande e significativo di questo film: un'epopea visivamente monumentale, concepita per la grandezza del grande schermo, che ha trovato la sua consacrazione nel salotto di casa, un testamento alla mutazione genetica della fruizione cinematografica contemporanea.

Il film colpisce per le ricostruzioni scenografiche minuziosamente portate sul set da una regia che abbraccia il campo visivo appiattendo, in una sorta di vacuo sguardo disperato, uomini e cose sulla stessa ossessiva palette. Il grigio delle battaglie e il marrone delle trincee divengono un'ontologia cromatica con la quale Berger edifica il suo mondo costituito dalla disperazione umana e da un sempre più sbiadito istinto di sopravvivenza. Questa non è solo una scelta stilistica, è una dichiarazione filosofica. Berger ci immerge in un paesaggio infernale dove la distinzione tra terra e carne, tra fango e uomo, è quasi annullata. I soldati non sono eroi, sono golem di paura e terra bagnata. La sequenza di apertura, geniale e agghiacciante, che segue il ciclo di vita di un'uniforme—strappata a un cadavere, lavata, rammendata e consegnata a una nuova, ignara recluta—è la metafora perfetta del ciclo industriale della morte, dove gli uomini sono materiale di consumo, intercambiabile e anonimo.

La storia racconta la vicenda di un gruppo di amici, guidati dal giovane Paul Bäumer, che si imbarca, con un entusiasmo patriottico quasi febbrile, aizzato dalla retorica nazionalista del proprio preside, nella Grande Guerra che si profilava in Europa nel 1917. Il loro idealismo romantico, fatto di sogni di gloria e parate a Parigi, si infrange contro la prima, assordante esplosione di un proiettile di artiglieria. Da quel momento, la loro non sarà più una guerra, ma una lotta per la sopravvivenza animale.

Il capolavoro di Lewis Milestone del 1930, girato a ridosso del trauma, era un grido morale, un atto d'accusa contro la generazione dei padri che aveva mandato al macello i propri figli. Il film di Berger, forte di quasi un secolo di riflessione storica, compie un'operazione più complessa. Aggiunge una linea narrativa assente nel romanzo: le trattative per l'armistizio condotte dal politico Matthias Erzberger (un misurato Daniel Brühl). Questa scelta crea una dialettica straziante tra il microcosmo della trincea, dove si muore per conquistare pochi metri di fango, e il macrocosmo della politica, dove generali arroganti e burocrati discutono di onore e capitolazione nel calore di un vagone ferroviario. La sequenza finale, in cui un generale tedesco, per un delirio di orgoglio, ordina un ultimo, insensato assalto a quindici minuti dalla fine della guerra, è la pugnalata definitiva. Non si muore più per la patria, si muore per l'ego di un uomo che non accetta la sconfitta. Il film del 1930 denunciava la follia della guerra; quello del 2022 ne disseziona la cinica, omicida burocrazia.

Berger compie un'operazione di contro-estetica fondamentale per il cinema tedesco. Per decenni, l'immaginario della guerra è stato inquinato, consciamente o inconsciamente, dall'estetica trionfalistica e deificante di Leni Riefenstahl, che nel suo Trionfo della Volontà aveva trasformato i corpi dei soldati in sculture perfette, parte di un'ornamentazione di massa. Berger fa l'esatto opposto. I corpi nel suo film sono carne macellata, spezzata, anonima. La macchina da presa non li eroicizza mai; li osserva con una pietà fredda e quasi clinica. Se un parallelo artistico va cercato, non è nel cinema, ma nella pittura della "Nuova Oggettività" della Repubblica di Weimar. Le inquadrature di Berger sembrano tele di Otto Dix o di George Grosz che prendono vita: volti sfigurati, paesaggi devastati, la grottesca danza della morte di una generazione perduta. È un'estetica della bruttura, del trauma, che rifiuta ogni forma di consolazione visiva.

Bisogna ricordare chi era Erich Maria Remarque: un veterano del fronte occidentale che scrisse un romanzo così potente e onesto da essere immediatamente messo al bando e bruciato dai nazisti. Il suo libro era veleno per la loro retorica militarista perché osava raccontare la verità: la guerra non forgia eroi, ma distrugge anime. Il film di Berger è fedelissimo a questo nucleo tematico. Il pacifismo di Remarque non è uno slogan politico, ma una constatazione esistenziale. Paul e i suoi amici vengono sistematicamente spogliati di tutto: della loro innocenza, dei loro legami, della loro capacità di immaginare un futuro. Diventano estranei persino a se stessi. La guerra li consuma fino a renderli spettri. La scena finale del film, in cui la narrazione si chiude su un'altra, ennesima recluta senza nome mandata al fronte, non lascia scampo. La macchina della morte ha semplicemente cambiato il pezzo usurato. L'opera di Berger, quindi, non è solo un film di guerra. È un monumento cinematografico alla "Generazione Perduta", un'elegia funebre di una bellezza terribile, che ci sbatte in faccia la verità più scomoda: che il contrario della guerra non è la pace, ma la semplice, fragile, e preziosissima normalità di una vita qualunque.

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