Amarcord
1973
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Regista
La storia di una famiglia nella Rimini degli anni ’30 diviene l’occasione per un’antologia di scene come visioni che riaffiorano dalla memoria (Amarcord appunto, mi ricordo). Ma non si tratta di un mero esercizio di nostalgia, quanto piuttosto di un'operazione quasi proustiana, un’archeologia dell’anima che scava nelle stratificazioni del ricordo per disvelare non tanto la verità storica, quanto la sua risonanza emotiva, il suo perpetuo vibrare nell'inconscio collettivo. La Rimini felliniana non è un ritratto realistico, bensì un affresco mitologico, un palcoscenico onirico dove la realtà si fonde con il sogno e la fantasia.
L’oppressione fascista con le squadracce che fanno bere l’olio di ricino al capo famiglia perchè durante la parata del Podestà ha fatto suonare un grammofono con l’Internazionale, non si risolve in una mera denuncia politica, bensì si tinge dei colori grotteschi e farseschi della memoria infantile e adolescenziale. Il regime viene de-sacralizzato, ridotto a una messinscena grandiosa e buffa, un’iperbole tragicomica che ben si adatta alla visione felliniana dell'esistenza come perpetuo circo. È il fascismo visto con gli occhi di un ragazzino, che ne coglie più la coreografia pomposa e l’idiozia intrinseca che non la reale portata tragica, pur senza ignorarla del tutto. Il pranzo di famiglia dove i problemi della giornata si affrontano con il pater familias che dal suo posto a capo tavola dispensa rimproveri e saggezza, è un rituale immutabile, una commedia dell'arte domestica che riassume l’Italia intera, un microcosmo di tic, affetti e nevrosi. L'emiro in visita alla città con il suo harem di cento mogli, la donna più bella della città, la Gradisca, e i suoi vestiti provocanti, la prima neve che porta stupore e incanto, e poi una parata di personaggi che sono più archetipi che individui: la Tabaccaia, seducente e voluttuosa epitome della tentazione carnale; il ragazzo distrutto dalla masturbazione, metafora dell'iniziazione sessuale e della colpa indotta; il nonno saggio e scorreggione, incarnazione di una saggezza popolare e primordiale, in contrappunto alla modernità goffa che avanza; il motociclista che saetta a folle velocità, simbolo di una libertà irrequieta e forse distruttiva; lo zio scapolo e desideroso di una compagna, grido di un desiderio inappagato e universale, e tantissimi altri. Questi personaggi, lungi dall'essere mere macchiette, si ergono a simboli di un'umanità variegata, a veri e propri archetipi calati in un palcoscenico di provincia, resi immortali dalla potenza evocativa di Fellini.
Un Fellini che guarda con fervida tenerezza e verve ironica alla sua città natale e ne ricrea atmosfera e malìa negli studi di Cinecittà. La Rimini che emerge non è la fedele riproduzione topografica, ma la sua essenza distillata, un luogo dell'anima ricreato con sapienza artigianale. La finzione scenografica, curata nei minimi dettagli da Dante Ferretti, non nasconde la sua natura artificiale, anzi la esalta, trasformando i set in un'estensione del sogno, un fondale teatrale dove la vita si manifesta in tutta la sua esuberante, a volte grottesca, bellezza. È un Fellini al culmine del suo "stile", del suo inconfondibile "Felliniesque", capace di fondere il quotidiano con il fantastico, il banale con il sublime.
Una Rimini da cui escono personaggi che sembrano fate e folletti a zonzo nella bruma della sera e su cui cala l’occhio paterno del grande Federico. La nebbia, elemento ricorrente, non è solo un tratto distintivo del paesaggio padano, ma diviene metafora della memoria stessa, che offusca e trasfigura, rendendo tutto più etereo e leggendario. Il mare, sempre presente ma spesso sullo sfondo, è un altro simbolo potente, orizzonte di fuga e di mistero, richiamo a un'infinità che la provincia tenta invano di contenere.
Una città smembrata e passata al setaccio nella sua umanità, nella sua storia, nella sua presenza immemore nella mente del regista riminese. Amarcord è un'operazione di decostruzione e ricostruzione, una vivisezione affettuosa della provincia italiana, con le sue ipocrisie, le sue passioni vibranti, i suoi riti sociali e le sue ribellioni sommesse. Sotto la patina di giocosa malinconia, si cela un'indagine profonda sui riti di passaggio, sull'erotismo inespresso e represso che permea l'aria, sulla caducità del tempo e sull'incessante ciclo della vita e della morte. Come in I Vitelloni, o in un certo senso in Otto e mezzo, Fellini si interroga sulla propria origine, sui fantasmi che popolano la sua creatività, sulle radici di un'identità che è, in fondo, profondamente italiana e universale al tempo stesso. La magistrale colonna sonora di Nino Rota, malinconica e giocosa, amplifica ogni emozione, divenendo essa stessa una voce narrante, un inno agrodolce alla vita che scorre.
Segnalazione per la spassosissima scena in cui Ciccio Ingrassia si arrampica su un albero e grida ai 4 venti il suo desiderio di una donna. Questa scena, iconica e liberatoria, cattura l'essenza del film: la disperazione esistenziale che si trasforma in un gesto di sublime e ridicola protesta, il grido primordiale di un’umanità che cerca connessione e senso, anche nella più grottesca delle manifestazioni.
Tutto lo spirito autentico di una terra ai confini tra papato, bisanzio e nuovo millennio sta in questo vagolante singulto, in questo grido apotropaico. Amarcord trascende il racconto di una Rimini passata per diventare un mito universale, un'elegia per un'epoca perduta ma anche una celebrazione della persistente, anarchica vitalità dell'essere umano. È la dimostrazione che il più personale dei ricordi può farsi il più universale dei sogni, e che la memoria, per quanto fedele o infedele sia, resta il vero motore della narrazione e della creazione, un eterno ritorno a quel "mi ricordo" che è sia radice che orizzonte.
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