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American Beauty

1999

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Regista

Uno dei film più amati da pubblico e critica, vincitore di cinque oscar (miglior film, miglior regia, miglior fotografia, miglior sceneggiatura originale e miglior protagonista maschile a Kevin Spacey), American Beauty non è stato solo un trionfo ai botteghini e nelle cerimonie di premiazione; è stato un fulmine a ciel sereno, un sismografo perfetto delle inquietudini fin-de-siècle che covavano sotto la superficie patinata della prosperità americana di fine millennio. Non è un caso che sia emerso proprio in quel frangente storico, offrendo una lente acuta sulla disintegrazione dei valori borghesi e sulla ricerca di autenticità in un mondo sempre più assuefatto all'apparire.

Sam Mendes si tuffa nella poetica della quotidianità, e lo fa tramite lo sguardo di un cinquantenne in crisi di identità innamoratosi di un’adolescente amica della figlia. Il suo debutto cinematografico è un balletto visivo e narrativo che eleva il banale a metafora esistenziale, trasformando il dramma domestico in un apologo universale sulla solitudine e sulla ricerca del senso. Non si limita a osservare, ma disseziona con chirurgica precisione il nucleo familiare, rivelandone le ipocrisie e le aspirazioni represse. In questo senso, il film si inserisce in una ricca tradizione di opere che esplorano il lato oscuro del sogno americano suburbano, da Blue Velvet di David Lynch, sebbene con tonalità meno apertamente surreali e più realistiche, a romanzi come Revolutionary Road di Richard Yates, di cui Mendes stesso dirigerà poi l'adattamento cinematografico.

Il risultato è quello di un’opera dalla duplice natura in cui il fiore di una gioventù disinibita e smaliziata incrocia una maturità patetica nei suoi tentativi di emergere dall’indolenza. Questa dualità si manifesta non solo nel conflitto generazionale, ma anche nella stessa psiche dei personaggi, lacerati tra ciò che sono e ciò che la società si aspetta da loro. Il film è una sinfonia di contrasti: la bellezza artificiale dei giardini suburbani contro l'autenticità scompigliata di un sacchetto di plastica che danza nel vento, la sterile perfezione formale contro il caos emotivo che ribolle sotto la superficie, il tutto accompagnato dalla malinconica e iconica colonna sonora di Thomas Newman, che cuce un tappeto emotivo di sottile disagio e fugace speranza.

I sentimenti, le aspirazioni, le sensazioni, le emozioni passano attraverso la cartina di tornasole della regia che restituisce un perfetto spaccato di vita famigliare della media borghesia americana, oppressa dai suoi piccoli drammi quotidiani e dalla crisi coniugale. Ma la critica di Mendes va ben oltre il mero ritratto. È un'indagine spietata sulla futilità del consumismo sfrenato, sull'ossessionone per lo status e sull'incapacità di comunicare che affligge una società in cui l'immagine ha soppiantato la sostanza. La casa stessa, simbolo di successo e stabilità, si rivela una prigione dorata, un teatro di frustrazioni silenziose. Il film svela il kitsch di un'esistenza in cui anche l'emozione è standardizzata, la felicità un prodotto da acquistare e le relazioni una performance da mantenere.

Una dimensione dove la crisi d’identità genera la metamorfosi dei suoi componenti: Lester vuole affrancarsi dai vincoli sociali per dedicarsi ad una vita secondo le sue regole, Jane, la figlia, vorrebbe essere e non apparire, vorrebbe amare quel ragazzo strambo vicino di casa senza badare a quello che dicono le amiche, mentre Carolyn frustrata dagli insuccessi lavorativi tradirà il marito con uno degli agenti immobiliari più di successo. Questa è la galleria di personaggi che popolano l'universo di American Beauty: individui disperatamente alla ricerca di un senso, ciascuno a modo suo. Lester, nel suo rovesciamento del ruolo tradizionale di capofamiglia, incarna la ribellione contro la castrazione emotiva; Carolyn è la quintessenza dell'american dream distorto, la donna in carriera che vede il suo valore misurato solo dal successo esteriore, una figura tragica nella sua devozione al successo esteriore che la porta a tradire ogni autentico desiderio; Jane, con la sua estetica dark e il suo sguardo cinico, rappresenta una gioventù che rifiuta le illusioni genitoriali, mentre Ricky Fitts, il vicino di casa voyeur e spacciatore, si rivela essere il vero esteta, l'unico in grado di cogliere la bellezza sublime nell'ordinario e persino nel degrado, un osservatore quasi brechtiano che ci guida attraverso la follia della sua comunità.

Lester Burnham è un quarantaduenne oppresso da una moglie isterica, arrampicatrice sociale e maniaca del proprio lavoro di agente immobiliare. Deve sopportarne le sfuriate, i tradimenti, il comportamento ossessivo e oppressivo. Il suo "risveglio" è meno una fuga da un matrimonio infelice e più un tentativo disperato di recuperare un'autenticità perduta, un barlume di vitalità che l'esistenza suburbana gli ha sottratto. La sua infatuazione per Angela Hayes non è tanto desiderio carnale quanto la proiezione di una libertà e di una purezza che crede di aver perso. È una chimera, un catalizzatore per la sua trasformazione, un detonatore di un'implosione interiore attesa da tempo.

Ad un’esibizione della figlia come cheerleader di una squadra locale conosce Angela e se ne innamora follemente. Un amore imbevuto di passionalità che porterà Lester a lasciare il lavoro e a cambiare completamente stile di vita. La sua discesa nella "devianza" agli occhi della società – abbandonare la carriera, fumare erba, lavorare in un fast food – è in realtà una risalita verso la sua vera essenza, un rigetto delle convenzioni che lo stavano soffocando.

Tante le scene che rendono questo film una meravigliosa galleria iconografica di sequenze memorabili, quella sicuramente più celebre e celebrata è il sogno di Lester nel quale Angela appare avvolta da un mare di petali di rosa rossa mentre ammicca maliziosamente. Questa non è solo una fantasia erotica; è una vera e propria epifania visiva, un momento di sublime surrealismo che Conrad L. Hall, direttore della fotografia, trasforma in pittura vivente. L'uso dominante del rosso, colore della passione ma anche del pericolo e dell'artificialità (come i roseti americani), si fa qui metafora della vita che Lester desidera. La sequenza dei petali, che fluttuano e lo avvolgono, divenne immediatamente un'icona culturale, un simbolo universale della bellezza effimera e dell'ossessione che sfuma i confini tra desiderio e realtà, richiamando la suggestione di un'opulenza onirica tipica dell'estetica di quegli anni.

A testimonianza della compenetrazione tra piano onirico e piano pragmatico i petali fuoriescono dalla visione per andare dolcemente a cadere sul viso beatificato di Lester. Questo è il genio della sceneggiatura di Alan Ball, che riesce a infondere magia nel quotidiano e a suggerire che la bellezza, come l'orrore, risiede negli occhi di chi guarda. Il film si muove costantemente su questo crinale sottile, spingendo lo spettatore a riconsiderare cosa sia realmente bello o degno di nota. Il famoso monologo di Ricky sul sacchetto di plastica che balla nel vento è il manifesto di questa filosofia: una bellezza inaspettata, non convenzionale, che si manifesta nell'ordinario e nel transitorio, una sorta di "found art" post-moderna che contrasta la perfezione artefatta della vita suburbana, invitando a una contemplazione quasi zen del reale.

In definitiva un’opera che fustiga ferocemente gli ideali di una classe sociale senza più punti di riferimento: Lester prende in mano la sua vita per divenire un patetico surrogato di se stesso, una pallida ombra dell’Humbert Humbert di Nabokov, un uomo cinico e disilluso sopraffatto dalla vita. Ma la sua "pateticità" è una lente attraverso cui osservare la patologia più ampia della società circostante. Mentre Humbert incarna la perversione predatoria, Lester è piuttosto la vittima di un sistema che lo ha svuotato, e la sua "ribellione" è un ultimo, disperato grido di autenticità. La sua fine, tragica eppure catartica, sigilla il destino di un uomo che ha scelto di infrangere le gabbie invisibili del conformismo, anche a costo della vita. American Beauty non è solo una satira pungente; è un'elegia per l'anima americana perduta, un monito sulla fragilità della felicità costruita sull'apparenza e un invito a trovare la bellezza nelle imperfezioni, prima che sia troppo tardi. La sua risonanza perdura perché le sue domande sulla felicità, l'autenticità e il significato della vita restano dolorosamente attuali.

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