Amour
2012
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Regista
Un film di raggelante bellezza questo di Haneke, un amaro resoconto della decadenza del corpo e dello spirito. La sua è una bellezza che non edulcora, ma che svela l'indicibile con la precisione di un bisturi, una sorta di sublime tragico che nasce non dall'idealizzazione della sofferenza, bensì dalla sua esposizione più cruda e inesorabile. È un'estetica della verità scomoda, dove ogni inquadratura, ogni silenzio, è calibrato per massimizzare l'impatto emotivo senza mai scivolare nel sentimentalismo facile, un esercizio di distacco che paradossalmente genera una profondissima empatia.
Haneke maestro del disagio strisciante, se ne Il Nastro Bianco aveva inserito questo tipo di sentimento all’interno di una comunità, lo aveva nutrito per studiarne gli effetti su un microcosmo di persone con la minuziosa ricostruzione di una latente patologia sociale nel cuore di una Germania pre-bellica, in Amour il disagio, la non appartenenza, la progressiva deriva dal proprio amore e successivamente dalla realtà si manifesta all’interno di una coppia sancendone la dissolvenza. Qui il malessere non è una piaga sociale, ma una corrosione intima, viscerale, che si annida tra le mura domestiche, trasformando un santuario d'amore in una prigione di sofferenza. Haneke, con la sua inconfondibile lente fredda e analitica, sposta il suo sguardo dalla malattia endemica di una società alla più universale e inevitabile fragilità della condizione umana di fronte all'ineluttabilità del tempo e della morte. L'assenza di musica diegetica per gran parte del film, l'uso ossessivo di inquadrature fisse che trasformano lo spettatore in un voyeur passivo, quasi complice, sono elementi che concorrono a costruire questa sensazione di disagio palpabile, un'atmosfera sospesa che si nutre del non detto e del mostrato con brutale onestà.
La storia è quella di Georges e Anne, una coppia di anziani maestri di musica in pensione che vive serenamente il tramonto della propria vita in compagnia di ricordi e musica. Due giganti del cinema francese, Jean-Louis Trintignant ed Emmanuelle Riva, prestano la loro statura artistica e la loro storia personale a questi personaggi, infondendo loro una dignità e una fragilità autentiche che trascendono la mera recitazione. La loro maestria nel campo musicale, un universo di armonia e precisione, si contrappone in modo straziante al caos e alla dissonanza che irromperanno nelle loro esistenze. Le loro giornate sono intessute di una deliziosa routine che li rende complici, una sinfonia di gesti quotidiani, di sguardi d'intesa, di piccole abitudini consolidate che rappresentano la solidità e la bellezza di un amore costruito mattone su mattone nell'arco di decenni.
L’imponente cattedrale del loro amore viene improvvisamente spazzata via da un ictus che colpisce Anne rendendola inferma e incapace di essere indipendente. L'evento traumatico non è solo il punto di svolta narrativo, ma una frattura che lacera il tessuto della loro esistenza, un'invasione barbara che distrugge l'armonia preesistente. La casa, prima rifugio di intime felicità e scambio culturale, si trasforma gradualmente in un claustrofobico teatro di decadenza, dove ogni spazio, ogni oggetto, assume il peso opprimente del disfacimento.
Georges avrà il penoso compito di accudire Anne con l’aiuto di un’infermiera osservando l’amore di tutta una vita trafugato da una crudele fatalità. Un compito che non è solo fisico, ma soprattutto morale ed esistenziale. Il suo volto, scavato dalla sofferenza e dalla veglia, diventa lo specchio di un'anima che si consuma nel tentativo disperato di preservare un brandello di dignità per la persona amata, e per sé stesso. La figlia, Eva (interpretata da un'intensa Isabelle Huppert), seppur presente e preoccupata, rimane in qualche modo estranea all'abisso che si spalanca tra i genitori, incapace di comprendere fino in fondo la natura del patto che li lega e le sfumature di una decisione ultima che Georges è costretto ad affrontare in solitudine.
Sarà occasione per lui di stringere un patto con la solitudine macerandosi nelle memorie di un’esistenza trascorsa accanto ad una donna che ora vede impietrita e annientata su un letto. Questa solitudine è il prezzo di un amore che non si sottrae al suo destino più amaro, una solitudine che non è data dall'assenza fisica, ma dalla progressiva perdita di connessione, dal vedersi sfuggire la persona che si è amata per una vita intera, ridotta a un guscio, a una dolorosa memoria di sé. Haneke non ci risparmia nulla di questo processo di svuotamento, il suo sguardo penetrante si fissa sui dettagli più scomodi: la difficoltà di nutrirsi, l'incontinenza, la perdita di autonomia, la crescente afasia. Egli non è interessato a drammatizzare questi aspetti, ma a mostrarli con la precisione di un documentarista, lasciando allo spettatore il peso della riflessione e dell'orrore silenzioso.
Haneke distrugge ogni convenzione e affonda il proprio sguardo sul crepuscolo di un uomo, sulla nichilistica devastazione morale e fisica che lo colpisce al termine di una vita che si dimostra feroce e brutale nella sua meccanicistica ciclicità. La scelta di girare quasi interamente all'interno di un appartamento borghese contribuisce a enfatizzare la claustrofobia emotiva e la prigionia di Georges, intrappolato nella sua devozione e nel dolore. Il regista austriaco si rifiuta categoricamente di offrire vie di fuga o consolazioni facili, evitando qualsiasi deriva melodrammatica tipica di altre rappresentazioni cinematografiche della vecchiaia e della malattia. La sua è una filosofia cinematografica che impone allo spettatore una partecipazione attiva, quasi dolorosa, al dramma che si consuma sullo schermo, costringendolo a confrontarsi con le proprie paure più recondite sulla perdita e sulla morte. Non è un nichilismo inteso come credenza nel nulla, quanto piuttosto come amara constatazione della precarietà del significato di fronte all'inevitabile dissoluzione fisica e mentale.
Lo straziante lirismo che sale dal dolore silenzioso di Georges è il coltello che in silenzio sbrana le carni di ognuno di noi, è l’ossessione inesplosa di un’immensa perdita a cui nessuno può porre rimedio. Questo lirismo non è espresso attraverso parole o musica soavi, ma attraverso la potenza del non detto, delle inquadrature fisse che indugiano sui volti solcati dal tempo e dalla pena, sui silenzi densi di significato. È il lirismo di un'agonia vissuta con dignità, di un sacrificio estremo che sfida la morale comune in nome di un amore assoluto, ma che allo stesso tempo interroga la natura stessa della compassione e dell'eutanasia, senza fornire risposte preconfezionate. Amour non è solo un film sulla vecchiaia o sulla malattia; è una meditazione profonda sull'essenza dell'amore, sulla dignità umana e sulla solitudine ultima di fronte al mistero della fine. Un'opera che, con la sua spietata onestà, si incide nella memoria dello spettatore, lasciando un segno indelebile come solo i capolavori sanno fare.
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