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Un americano a Parigi

1951

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Una delle opere che ha contribuito a rendere grande il genere del Musical e a metterne a punto i meccanismi cinematografici fino a raggiungere una perfezione stilistica di rara bellezza. Non si trattò di una semplice evoluzione, ma di una ridefinizione radicale del linguaggio cinematografico applicato alla musicalità, un vero e proprio manifesto artistico che, in un'epoca post-bellica in cerca di nuova armonia e disimpegno poetico, seppe elevare il genere da mero intrattenimento a forma d'arte compiuta. La sua "perfezione stilistica" non è un freddo virtuosismo tecnico, ma una fusione organica di elementi che risuonano con una risonanza quasi sinestetica, trasformando la pellicola in un'esperienza immersiva e totalizzante.

Contribuirono notevolmente al successo le musiche di Gershwin e le coreografie dello stesso Gene Kelly ispirate all’espressionismo tedesco (per questo film Kelly ricevette un’onorificenza speciale dall’Academy per la sua versatilità nella recitazione, nel ballo, nella coreografia e nella direzione registica). Le composizioni di Gershwin non sono qui un semplice accompagnamento, ma la linfa vitale del racconto, un poema sinfonico tradotto in immagini. Brani iconici come "Rhapsody in Blue" o "I Got Rhythm" si integrano perfettamente nella narrazione, non come interruzioni ma come estensioni melodiche dei sentimenti dei personaggi e dell'atmosfera parigina. L'influenza dell'espressionismo tedesco nelle coreografie di Kelly è un elemento chiave che distacca il film dal mero sfarzo hollywoodiano: si manifesta nell'audacia delle forme, nell'uso drammatico dello spazio e del colore, e soprattutto nell'astrattismo psicologico che permea l'epico "An American in Paris Ballet". Questa sequenza finale, lunga quasi diciassette minuti, è un vero capolavoro, un tributo vivente alla pittura francese (da Toulouse-Lautrec a Renoir, da Modigliani a Rousseau) che si tramuta in un turbinio di movimento e cromie vibranti, trasformando lo schermo in una tela dinamica. Il riconoscimento speciale dell'Academy a Kelly non fu un mero omaggio alla sua poliedricità, ma l'affermazione di un artista che aveva compreso e saputo sfruttare la capacità unica del cinema di sintetizzare diverse discipline artistiche.

La trama vede l’ambientazione della storia in una Parigi fervente di artisti, una bohéme quasi di maniera. Ma questa Parigi non è una fedele riproduzione documentaristica; è piuttosto una Parigi filtrata attraverso il prisma romantico di Hollywood, una città idealizzata di luci e aspirazioni artistiche, dove l'angoscia esistenziale è sublimata nella gioia dell'espressione creativa. La "bohème quasi di maniera" suggerisce una scelta estetica deliberata: non la cruda realtà della vita d'artista, ma una pittoresca messa in scena, un fascino quasi fiabesco che la rende atemporale. In questo brulicante milieu di intelletti uno scrittore e una donna facoltosa si conoscono e si amano tra mille difficoltà. Lui a causa del suo senso di colpa verso il mecenatismo della donna, lei perchè promessa ad un altro uomo. Il triangolo amoroso, archetipo drammatico per eccellenza, diviene qui veicolo per esplorare la tensione tra integrità artistica e sicurezza economica, tra passione e obbligo. Jerry Mulligan, il pittore americano squattrinato, incarna l'idealismo romantico, mentre Lise Bouvier, la quintessenza del fascino parigino, è divisa tra la lealtà e un desiderio inespresso. Le loro difficoltà, sebbene convenzionali, sono narrate con una levità che le rende accessibili, prefigurando sempre la risoluzione catartica e balletica finale.

Dietro la vicenda e il fluire degli eventi s’intravede l’occhio divertito di Minelli che plasma nuovi stilemi espressivi per incrociare danza e cinema sotto un perfetto cielo stellato. Inutile dire che l’impresa gli riesce fin troppo bene. Vincente Minnelli, con il suo acume per la scenografia e il suo innato senso del colore, si rivela l'architetto ideale di questa sinfonia visiva. Il suo "occhio divertito" è quello di un maestro che sa come sfruttare il Technicolor per trasformare le strade comuni di Parigi in composizioni vibranti, quasi pittoriche. Non si limita a filmare danze; egli coreografa la macchina da presa, permettendole di danzare essa stessa con gli interpreti, creando una fluidità e una sinergia che erano all'epoca rivoluzionarie. La sua capacità di sfumare i confini tra realtà narrativa e sequenza onirica, culminando nel trascendente balletto finale, è la pietra angolare del suo genio. Questo "perfetto cielo stellato" non è solo una metafora del destino romantico, ma per le infinite possibilità dell'arte cinematografica, dove colore, movimento e musica si fondono in una Gesamtkunstwerk, un'opera d'arte totale, un affresco vivente e pulsante. Minnelli non si limita a dirigere; egli orchestra una sinfonia di sensi, avvolgendo lo spettatore in un'esperienza estetica senza pari.

Una menzione finale va, çava sans dire, alla levità ultraterrena del virtuoso Gene Kelly che trasla il suo corpo da una scena all’altra con grazia siderale. Kelly, più che un semplice interprete, è un vero poeta cinetico. La sua "levità ultraterrena" non è mera leggerezza fisica, ma l'intelligenza emotiva che infonde in ogni salto e piroetta. A differenza dell'eleganza raffinata di Fred Astaire, Kelly porta una fisicità atletica e democratica alla danza, rendendola accessibile eppure mozzafiato nella sua complessità. Dalle sue giocose danze per le strade parigine alle ampie, espressive arcate del balletto finale, egli domina lo schermo con un carisma che trascende la mera esibizione. È una forza della natura, uno scultore cinetico che plasma narrazione ed emozione dall'aria stessa, lasciando un'impronta indelebile nel panorama della danza cinematografica. La sua stessa presenza eleva il film da semplice musical a profonda dichiarazione sul potere dell'arte di trasportare e trasformare, confermando "Un americano a Parigi" non solo come un classico, ma come un pilastro ineguagliabile della settima arte.

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