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Anatomia di una Caduta

2023

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Quando l'Arte del Cinema si spinge in territori sconfinati, ma del tutto inesplorati, come l'Etica, ne nascono, a volte, piccole perle preziose da custodire gelosamente. È il caso di questo "Anatomia di una Caduta" di Justine Triet, meritatissimo vincitore della Palma d'Oro a Cannes. È un'opera che rifiuta la consolazione della certezza per abbracciare l'inquietudine del dubbio, un thriller psicologico che si traveste da dramma processuale, o forse il contrario. Opera di una purezza formale abbacinante, spinge il suo sguardo nel dilemma morale di un ragazzo parzialmente cieco, Daniel, la cui madre, Sandra, è sospettata di aver ucciso il marito, Samuel, dopo averlo spinto (o forse no?) da un balcone, e unico, problematico testimone dell'evento.

Il film di Justine Triet si inserisce con prepotenza in quel filone nobile che vede il cinema e la letteratura non come strumenti per fornire risposte, ma per formulare domande più complesse. Siamo in pieno territorio pirandelliano, in un Così è (se vi pare) giudiziario dove la verità oggettiva è un'ipotesi irraggiungibile, un fantasma che aleggia sull'aula del tribunale ma che nessuno riesce ad afferrare. L'opera di Triet condivide il suo DNA filosofico con il capolavoro di Akira Kurosawa, Rashomon, ma con una differenza sostanziale: lì avevamo più versioni dello stesso evento; qui, dell'evento cruciale—la caduta—non abbiamo nessuna versione attendibile. Il dilemma etico non è tanto "quale versione è vera?", quanto "quale versione scegliamo di costruire e di credere?". Il conflitto interiore dei personaggi, in particolare quello del giovane Daniel, non è una lotta tra il vero e il falso, ma una dolorosa selezione della narrazione che gli permetterà di sopravvivere, di continuare a vivere con uno dei due genitori, sapendo che la sua scelta narrativa condannerà o assolverà l'altro.

Il rapporto tra Sandra e suo figlio Daniel è il cuore pulsante e sanguinante del film. Il processo non è solo un evento esterno che subiscono, ma un reagente chimico che trasforma la natura stessa del loro legame. L'aula di tribunale diventa un palcoscenico pubblico dove l'intimità familiare viene vivisezionata, analizzata e usata come arma. Daniel, da bambino protetto, viene violentemente promosso al ruolo di testimone chiave e, in definitiva, di giudice morale. È un piccolo Edipo costretto a sondare la natura della relazione dei suoi genitori, a confrontarsi con le loro colpe, le loro frustrazioni e la loro infelicità. L'etica di questo conflitto filiale è straziante: per salvare sua madre, Daniel deve compiere un atto di fede, una scelta che si basa su una "verità" che lui stesso costruisce, mettendo insieme i pezzi di un ricordo forse reale, forse indotto, forse semplicemente necessario. È un'inversione terribile del ruolo genitoriale, dove il figlio si trova a dover "creare" una realtà sostenibile per poter continuare ad avere una madre, compiendo una scelta adulta la cui ombra lo perseguiterà per sempre.

La genialità del film risiede nel suo rifiuto di risolvere l'enigma. La morte di Samuel potrebbe essere un suicidio, frutto di una depressione e di un fallimento artistico; un incidente assurdo; un omicidio scaturito da una lite furibonda. Tutte e tre le opzioni sono tragicamente plausibili e, a loro modo, banali. Triet ci nega la soddisfazione della soluzione, la catarsi del flashback rivelatore. Invece, ci costringe a condividere il disorientamento del jury e di Daniel. Siamo sommersi da frammenti: perizie, analisi delle macchie di sangue, teorie contrapposte e, soprattutto, la registrazione audio di una lite devastante. Ascoltiamo l'escalation di violenza verbale, ma lo schermo rimane nero, lasciando alla nostra immaginazione il compito di visualizzare l'orrore. Questo procedimento narrativo ci rende soggetti attivi nel processo, non semplici spettatori. Ci costringe a giudicare, a dubitare, a prendere posizione, per poi mostrarci la fragilità di ogni nostra certezza.

Anatomia di una caduta utilizza con intelligenza sopraffina l'impalcatura del giallo classico per poi svuotarla dall'interno. Abbiamo tutti gli elementi del genere: un corpo, una potenziale arma del delitto, un'indagata dal comportamento ambiguo, un avvocato tenace, un pubblico ministero spietato e un mistero da risolvere. Tuttavia, Triet prende questo meccanismo perfetto e lo usa non per arrivare alla verità, ma per dimostrarne l'impossibilità. È un anti-giallo, un "whodunnit" dove la domanda "chi è stato?" diventa progressivamente meno importante di "chi erano queste persone?" e "cosa resta di un amore quando viene messo sotto processo?". Il film smonta il comfort del genere investigativo, suggerendo che la vita reale, a differenza di un romanzo di Agatha Christie, è spesso un puzzle a cui mancano i pezzi più importanti, e che la giustizia non è la scoperta della verità, ma l'affermazione della narrazione più convincente.

L'aula di tribunale è un'arena dove la battaglia non si combatte con le armi, ma con le parole. La conflittualità dialogica è feroce: ogni aspetto della vita di Sandra (una superba Sandra Hüller) viene decontestualizzato e usato contro di lei. La sua carriera di successo diventa prova della sua natura manipolatrice; i suoi romanzi, che attingono alla sua vita, vengono presentati come prove premeditate; la sua bisessualità è usata per dipingerla come un'adultera inaffidabile. La sua apparente freddezza, la sua natura "glaciale", non è un indizio di colpevolezza, ma l'armatura di una donna e di un'artista che vede la sua intera esistenza, il suo linguaggio, la sua identità, essere smontati e riassemblati in una caricatura mostruosa dall'accusa. La sua performance è un capolavoro di controllo e implosione. Sotto la superficie intellettuale e controllata, percepiamo un dramma interiore vulcanico, che erutta solo nell'intimità di un confronto o nella violenza di un ricordo audio. Il film ci mostra una donna che non lotta solo per la sua libertà, ma per il diritto alla propria, complessa e non giudicabile, verità.

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