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Anatomia di un Omicidio

1959

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Un coinvolgente dramma giudiziale per Otto Preminger, che si avvale della recitazione misurata e sottilmente tormentata di James Stewart nel ruolo di Paul Biegler, un avvocato di provincia la cui vita, fino ad allora quieta, viene irrimediabilmente sconvolta dalla difesa di un tenente dell’esercito, Frederick Manion (un enigmatico Ben Gazzara), accusato dell’omicidio di un barman. Preminger, maestro nel destreggiarsi tra le spire della censura di Hollywood e nel dissezionare le ipocrisie sociali – come già dimostrato con La Luna è Blu o L'Uomo dal Braccio d'Oro – qui spinge l’asticella ancora più in alto, non solo per la trama avvincente, ma per il coraggio con cui il film si addentra in temi scabrosi come lo stupro e la violenza, e per l'uso di un linguaggio schietto, rivoluzionario per l’epoca. Il film divenne un vero e proprio caso di studio nel processo di allentamento del rigido Production Code, sfidando convenzioni e aprendo la strada a una narrazione più adulta e disinibita.

Durante il dibattimento, che occupa la parte preponderante e più avvincente dell'opera, l’avvocato Biegler si rende conto che il suo cliente non è affatto colui che sta emergendo dalle carte processuali, un’immagine distorta e semplificata che si scontra con la complessa e ambigua realtà umana. Si trova così di fronte non solo a un dilemma di coscienza, ma a un vero e proprio abisso etico, un confronto con la natura stessa della verità in un sistema giudiziario in cui la realtà viene costruita e decostruita attraverso l'abilità dialettica e la strategia. Il ritratto che emerge di Biegler è quello di un uomo navigato ma non cinico, la cui integrità è messa a dura prova non tanto dal volere difendere un colpevole, quanto dal dover manipolare le percezioni e le leggi per raggiungere un esito favorevole, indipendentemente dalla verità oggettiva, che resta un miraggio irraggiungibile.

La sensazione di una forza infusa sotterraneamente nell’opera sale potente dal nudo logos, dalla vis retorica di un avvocato che con la parola sovverte il dettato sociale e i suoi rigidi incartamenti. Non è solo retorica spicciola, ma l'impiego quasi chirurgico del linguaggio legale, la sua capacità di piegare le sfumature e di insinuare dubbi, che si rivela il vero motore dell’azione. Il copione, firmato da Wendell Mayes e basato sull'omonimo romanzo di John D. Voelker (sotto lo pseudonimo di Robert Traver), un giudice del Michigan nella vita reale, è un capolavoro di precisione verbale, intriso di un realismo procedurale che rende ogni botta e risposta in aula un duello di intelligenze e sottigliezze. È attraverso la parola che i personaggi rivelano o nascondono le loro vere intenzioni, è nel gioco di interrogatori e contro-interrogatori che si svela la natura frammentaria e manipolabile della giustizia, un concetto che Preminger esplora con disarmante lucidità.

Preminger opera una sorta di scomposizione del piano etico in un labirinto di specchi: da un lato la moralità della convenzione, della rispettabilità borghese, dall’altro quella della convenienza, della strategia legale che mira alla vittoria a ogni costo, e dall’altro ancora quella della verità, che rimane sfuggente, forse addirittura irrilevante di fronte al meccanismo della legge. Il film ci costringe a confrontarci con l'amara consapevolezza che il verdetto finale non coincide necessariamente con la giustizia o con la verità assoluta, ma è piuttosto il risultato di un'abile costruzione dialettica, un trionfo della persuasione. Le interpretazioni degli attori contribuiscono a questa ambiguità: James Stewart offre una delle sue performance più stratificate, allontanandosi dal suo consueto archetipo di "bravo ragazzo" per vestire i panni di un uomo stanco ma acuto; Lee Remick, nei panni dell'affascinante ma inquietante Laura Manion, è un concentrato di ambiguità sensuale e vittima potenziale; mentre George C. Scott, nel ruolo del pubblico ministero Claude Dancer, è un perfetto contraltare, aggressivo e implacabile.

Di grande effetto sono le sequenze processuali, il cuore pulsante del film, che risultano sempre di grande tensione dialettica. Girato interamente sul luogo, nella Penisola Superiore del Michigan, tra la vera corte e gli ambienti locali, il film acquisisce un’autenticità quasi documentaristica. La regia di Preminger, con le sue lunghe inquadrature e il suo approccio distaccato ma sempre attento, ci immerge completamente nell’aula di tribunale, rendendo palpabile ogni silenzio, ogni sguardo, ogni pausa. A contribuire in modo decisivo a questa atmosfera unica è la straordinaria colonna sonora di Duke Ellington, innovativa e pionieristica per l'epoca. È stata la prima volta che un compositore afroamericano ha firmato l'intera partitura di un film hollywoodiano, e la sua musica jazz, vibrante e dissonante, non è mero accompagnamento ma un elemento narrativo intrinseco che sottolinea la tensione, il nervosismo e l'ambiguità morale della vicenda. Anche i titoli di testa, disegnati da Saul Bass, con la loro stilizzazione anatomica, preparano lo spettatore a una dissezione non solo di un crimine, ma della stessa anima umana e del sistema che cerca di giudicarla.

Un grande film che, purtroppo, è talvolta sepolto nell’oblio del passato, forse oscurato dalla sua stessa acuta proceduralità o dalla mancanza di melodramma esplicito che spesso catalizza l'attenzione. A quest'opera intendiamo donare il giusto lustro che merita, riconoscendone la sua influenza discreta ma profonda sul genere del dramma giudiziario, ponendo le basi per future esplorazioni della complessità legale e morale come in Il Buio Oltre la Siepe.

È un’opera affilata come una lama che trapassa la mente dei suoi personaggi, e con essi anche quella dello spettatore, rilasciando alla luce del sole ogni più recondito contenuto: le pulsioni inconfessabili, le difese psicologiche, le menzogne necessarie e le verità scomode. Il finale, lungi dal fornire facili risoluzioni, lascia una scia di ambiguità e interrogativi, costringendoci a riflettere sulla natura illusoria della giustizia e sulla fragilità della verità in un mondo di apparenze. La sua modernità risiede proprio in questa sua audace indeterminatezza, un monito inquietante sulla fallibilità umana e sui limiti insiti in ogni sistema che pretenda di ergersi a custode della verità.

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