Angoscia
1944
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Regista
Poche opere cinematografiche possono vantare il privilegio, o forse la condanna, di aver impresso il proprio titolo nel lessico della psiche collettiva. Gaslight, che in Italia assunse il titolo più melodrammatico ma non meno efficace di Angoscia, non è semplicemente un film; è la codifica di un concetto, la diagnosi di un abuso così sottile e pervasivo da richiedere un neologismo per essere afferrato. L'atto del "gaslighting", ovvero la manipolazione psicologica volta a far dubitare una vittima della propria sanità mentale, oggi è un termine di uso comune, ma la sua genesi cinematografica, orchestrata con precisione chirurgica da George Cukor nel 1944, rimane un vertiginoso capolavoro di terrore da camera.
Il film si insinua nello spettatore con la stessa subdola lentezza con cui il suo antagonista, Gregory Anton (un Charles Boyer mellifluo e terrificante nella sua controllata crudeltà), si insinua nella mente della sua preda. Paula Alquist, interpretata da un'Ingrid Bergman che qui consegna una delle performance più iconiche e strazianti della sua carriera, non è una vittima passiva, ma una mente brillante e vibrante che viene sistematicamente, metodicamente, smantellata. La grandezza del film risiede proprio in questo processo. Non assistiamo a un'esplosione di violenza, ma a una lenta, costante erosione della realtà, un stillicidio di dubbi che avvelena la percezione. Un oggetto smarrito, un rumore inspiegabile, un'osservazione casuale che insinua il seme della paranoia: Cukor, maestro nel dirigere le attrici e nel sondare le psicologie femminili, trasforma questi piccoli incidenti domestici in armi di distruzione di massa psicologica.
La Londra vittoriana del film non è un mero sfondo decorativo, ma un labirinto gotico che funge da cassa di risonanza per l'angoscia di Paula. Il numero 9 di Thornton Square è un personaggio a tutti gli effetti, un mausoleo soffocante carico di memorie represse e di un lusso opprimente. Gli interni, carichi di pesanti tendaggi, di oggetti che sembrano osservare e di specchi che riflettono un'immagine sempre più distorta della protagonista, evocano le atmosfere claustrofobiche di Edgar Allan Poe. La casa, come la dimora degli Usher, è un'estensione fisica della psiche in disfacimento di chi la abita. Ogni ombra proiettata dalle luci a gas che danno il titolo al film sembra danzare al ritmo delle insicurezze di Paula, diventando la metafora visiva perfetta della nebbia che cala sulla sua mente. La regia di Cukor intrappola Bergman e, con lei, lo spettatore, in inquadrature che enfatizzano la sua solitudine e la sua vulnerabilità, spesso isolandola in un angolo della composizione, schiacciata dall'imponenza dell'arredamento e dalla presenza predatoria di Boyer.
Il parallelismo più immediato è con la letteratura gotica à la Brontë o con il Rebecca di Daphne du Maurier (portato sullo schermo da Hitchcock solo quattro anni prima), dove una giovane eroina si trova prigioniera in una magione imponente, perseguitata dal passato e manipolata da una figura maschile enigmatica. Ma Cukor va oltre. Laddove in Rebecca la minaccia è spettrale e psicologica ma legata a una figura assente (la prima moglie), in Angoscia il mostro è presente, affascinante, e dorme nello stesso letto della vittima. Gregory Anton non è un Mr. Rochester dal cuore tormentato; è un predatore calcolatore, un proto-sociopatico la cui arma non è la forza bruta, ma la seduzione e la parola. La sua violenza è linguistica, la sua crudeltà è intellettuale. Charles Boyer, con il suo accento continentale e i suoi modi impeccabili, crea un archetipo di cattivo moderno, la cui malvagità è tanto più spaventosa perché ammantata di premura e razionalità.
In questo teatro della crudeltà psicologica, ogni personaggio secondario diventa una pedina nel gioco di Gregory. Persino la giovanissima Angela Lansbury, al suo folgorante debutto, incarna una cameriera, Nancy, la cui sfrontata insolenza non è semplice insubordinazione, ma un ulteriore strumento di destabilizzazione, un costante promemoria per Paula della sua presunta inadeguatezza e follia. Joseph Cotten, nel ruolo dell'ispettore di Scotland Yard Brian Cameron, rappresenta l'ancora alla realtà, la logica e l'osservazione empirica che si oppongono alla narrazione distorta di Gregory. La sua indagine non è solo la risoluzione di un vecchio crimine, ma una vera e propria lotta epistemologica per la restaurazione della verità oggettiva.
È quasi impossibile non leggere Angoscia, prodotto nel cuore della Seconda Guerra Mondiale, in una chiave più ampia, quasi meta-testuale. Il film è una potentissima allegoria sul potere della propaganda e sulla manipolazione delle masse. L'operazione di Gregory su Paula è un microcosmo di come un'autorità malevola possa convincere un'intera popolazione a dubitare dei propri occhi, a credere a una menzogna ripetuta all'infinito fino a farla diventare verità. In un'epoca in cui intere nazioni erano soggiogate da narrazioni totalitarie che riscrivevano la storia e la realtà stessa, il dramma intimo di una donna intrappolata in una casa londinese assumeva una risonanza universale e terribilmente attuale. La lotta di Paula per aggrapparsi alla propria percezione contro un assalto sistematico alla sua sanità mentale è la lotta dell'individuo contro il potere che cerca di annientarne la coscienza critica.
Un aneddoto produttivo getta una luce quasi ironica sulla natura stessa del film. Esisteva una versione britannica precedente, del 1940, diretta da Thorold Dickinson. La MGM, dopo aver acquistato i diritti per il remake, tentò sistematicamente di far sparire ogni copia della pellicola originale, cercando di distruggerne i negativi. Volevano che la versione di Cukor diventasse l'unica versione, l'unica realtà percepita dal pubblico. In un incredibile cortocircuito meta-cinematografico, lo studio stava, di fatto, "gaslightando" la storia del cinema, tentando di cancellare un'opera precedente per imporre la propria come verità assoluta. Fortunatamente, la versione britannica è sopravvissuta, ma l'episodio rimane un'inquietante testimonianza di come i meccanismi descritti nel film possano operare su qualsiasi scala.
Il climax finale, in cui Paula, finalmente consapevole e liberata, rovescia la dinamica di potere sul suo aguzzino, è di una catarsi quasi fisica. Le sue parole, pronunciate con una calma glaciale mentre finge di non trovare il coltello con cui liberarlo, non sono solo una vendetta, ma la riappropriazione del proprio intelletto e della propria realtà. "Se non stessi attento, potresti immaginare che le cose accadono davvero", gli dice, restituendogli al mittente la sua stessa velenosa logica. È il trionfo della mente individuale sulla tirannia psicologica.
Angoscia rimane un'opera fondamentale non solo come thriller psicologico impeccabile, ma come documento culturale che ha dato un nome a una forma invisibile di abuso. È un film la cui tensione non scaturisce da ciò che si vede, ma da ciò che si dubita di aver visto. La sua eredità non è confinata nelle cineteche, ma vive nel linguaggio che usiamo per descrivere le più oscure manipolazioni della mente umana, a testimonianza di come, a volte, il cinema non si limiti a riflettere la realtà, ma ci fornisca gli strumenti stessi per comprenderla.
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