Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Anomalisa

2015

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Un'intera cosmogonia può nascere da una singola voce. O, nel caso di Michael Stone, dalla sua assenza. Anomalisa, l'opera in stop-motion di Charlie Kaufman e Duke Johnson, non è semplicemente un film d'animazione per adulti; è un'autopsia dell'anima eseguita con la precisione di un orologiaio e l'empatia di un confessore. È la materializzazione cinematografica di una condizione che la psichiatria definisce Sindrome di Fregoli, ma che Kaufman, eterno cartografo delle prigioni della mente, traduce in un'esperienza universale di solitudine e disperazione. Michael Stone, autore di successo di manuali sul customer service – ironia affilata come un bisturi –, vive in un mondo monocorde e monofonico. Ogni singola persona che incontra, dal tassista alla sua ex fiamma, da sua moglie a suo figlio, possiede la stessa identica, desolante faccia e, cosa più cruciale, la stessa identica, piatta voce: quella del magnifico Tom Noonan.

Questa non è una trovata stilistica, ma il fondamento ontologico del film. È la prigione percettiva del solipsismo resa tangibile. Il mondo di Michael non è popolato da individui, ma da proiezioni intercambiabili del suo stesso tedio esistenziale. È un inferno sartriano dove "gli altri" non sono solo un fastidio, ma un'unica, opprimente entità. L'hotel Fregoli di Cincinnati, dove si svolge la maggior parte della narrazione, diventa così un non-luogo emblematico, un limbo che possiede la stessa desolazione architettonica e spirituale degli spazi dipinti da Edward Hopper. Come i personaggi di Hopper, Michael è un'isola di silenziosa disperazione in un ambiente che dovrebbe favorire la connessione e che invece ne amplifica l'assenza.

La scelta della stop-motion, lungi dall'essere un vezzo, è la chiave di volta dell'intera architettura emotiva. Questi pupazzi, stampati in 3D con una precisione quasi disturbante, non nascondono la loro natura artificiale. Le linee di giunzione sui loro volti sono visibili, un costante memento della loro costruzione, del loro essere assemblati pezzo per pezzo. Kaufman e Johnson non cercano la fluidità iperrealistica di uno studio come Laika; al contrario, abbracciano l'imperfezione, il leggero scatto, la fragile fisicità dei loro protagonisti. E in questa imperfezione risiede la loro umanità. I loro movimenti impacciati, il modo in cui i loro corpi si piegano e si siedono, rivelano una vulnerabilità che attori in carne e ossa farebbero fatica a replicare. È un paradosso geniale: usare il mezzo più palesemente artificiale per raccontare una delle storie più visceralmente umane e autentiche del cinema recente. I pupazzi di Anomalisa non sono una barriera alla realtà, ma una lente d'ingrandimento su di essa.

In questo purgatorio di omologazione, irrompe Lisa. E irrompe, innanzitutto, come suono. Un'epifania acustica. Sentendo la sua voce – quella, esitante e meravigliosamente imperfetta, di Jennifer Jason Leigh – da dietro una porta del corridoio, Michael sperimenta l'equivalente di una rivelazione mistica. Per la prima volta, un suono si distingue dal brusio di fondo dell'esistenza. Lisa non è convenzionalmente bella, ha una cicatrice sul volto di cui si vergogna, è insicura e priva di filtri. È, in una parola, reale. E per Michael, la sua unicità è una promessa di salvezza, un'anomalia nel sistema, la sua "Anomalia-Lisa".

La lunga, centrale sequenza nella stanza d'albergo è un capolavoro di intimità e di drammaturgia dell'ordinario. La conversazione imbarazzata, la richiesta di Lisa di cantare una canzone (una versione straziante di "Girls Just Want to Have Fun" di Cyndi Lauper, trasformata da inno pop a confessione sussurrata di desiderio e malinconia), e la successiva scena di sesso, sono di una delicatezza e di un realismo disarmanti. L'animazione permette agli autori di spogliare l'atto sessuale di ogni patina glamour, restituendolo alla sua goffa e tenera fisicità. Vediamo due corpi imperfetti, due anime fragili, che cercano un contatto disperato per sfuggire, anche solo per una notte, alla prigione della propria solitudine. In questo, Kaufman si ricollega alla grande tradizione letteraria americana della disperazione quieta, quella che va da John Cheever a David Foster Wallace, autori che hanno saputo cogliere l'abisso di vuoto che si cela dietro la facciata della normalità suburbana e professionale.

Ma Kaufman è Kaufman, e nessuna salvezza è mai così semplice. Il film deraglia in un incubo kafkiano dove il volto di Michael si stacca, rivelando i meccanismi sottostanti, e il direttore dell'hotel (sempre Tom Noonan) gli svela che il mondo intero lo ama, ma che l'amore è condizionato e fragile. È la crisi del sé che si manifesta, la paura che la propria identità non sia altro che una maschera fragile, un costrutto sociale pronto a disintegrarsi. La tragedia si consuma la mattina dopo. Durante la colazione, i piccoli tic verbali di Lisa, i suoi modi di fare che la sera prima apparivano così unici e affascinanti, iniziano a infastidire Michael. E poi, l'orrore: la sua voce comincia a fondersi, a scivolare lentamente ma inesorabilmente nel timbro uniforme di Tom Noonan. L'anomalia viene riassorbita dal sistema.

Qui emerge la critica più spietata e dolorosa del film. La salvezza di Michael non era in Lisa come individuo, ma nell'idea di Lisa, nella sua funzione di "Altro" che potesse definirlo per contrasto. È una decostruzione micidiale del tropo della "Manic Pixie Dream Girl", la donna eccentrica che esiste solo per salvare il protagonista maschile dalla sua noia. Kaufman ci mostra che il problema non è mai stato il mondo esterno, ma la percezione di Michael. Non appena Lisa smette di essere uno specchio ideale per i suoi bisogni e diventa una persona reale, con i suoi difetti e le sue abitudini, anche lei viene inghiottita dalla stessa, grigia uniformità. La colpa non è del mondo che è monotono; è della sua incapacità di amare l'ordinario.

È significativo che un film così personale e intransigente sia stato finanziato in parte tramite una campagna Kickstarter. Quest'opera, che parla della disperata ricerca di una voce unica in un coro indistinto, è nata essa stessa da un coro di voci individuali che hanno creduto nella sua unicità. È un meta-commento involontario ma potente sulla natura del cinema d'autore nell'era della produzione di massa.

Il finale è di una crudeltà glaciale. Tornato a casa, Michael è più alienato che mai. Porta in dono alla famiglia una bambola sessuale giapponese antica e meccanizzata, un automa che canta una canzoncina con una voce femminile preregistrata. È un simulacro di unicità, un'anomalia artificiale e controllabile, l'esatto opposto della viva e imprevedibile Lisa. È la resa finale di Michael, il suo tacito accettare una vita di autenticità fabbricata. Mentre sua moglie e i suoi amici (tutti con la faccia e la voce di Noonan) lo festeggiano, lui siede isolato, un fantasma nella sua stessa vita. L'ultima inquadratura è per Lisa, che scrive una lettera in cui, nonostante tutto, si sente fortunata per averlo incontrato. Lei, a differenza sua, ha trovato in quell'incontro un frammento di bellezza da conservare. Lui, invece, è già alla ricerca della prossima, effimera anomalia. Anomalisa è un poema straziante sulla condizione umana, un'opera che usa l'artificio per scavare nella verità più profonda, lasciandoci con la consapevolezza agghiacciante che, a volte, l'inferno non sono gli altri, ma lo specchio in cui non riusciamo più a riconoscerci.

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