Apocalypse Now
1979
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Regista
Il film narra la vicenda del viaggio iniziatico di un giovane ufficiale nel Vietnam devastato dalla guerra, un'odissea metafisica che squarcia il velo della sanità per precipitare negli abissi dell'irrazionale, specchio deforme di un'America lacerata e del suo disincanto post-bellico. Risalendo il fiume Nung al tenente Willard è stata infatti affidata la missione di uccidere il colonnello Kurtz, ufficiale dell’esercito americano, autoproclamatosi signore della guerra e divenuto instabile leader di un esercito di tagliagole che imperversa nella parte nord del fiume compiendo razzie e devastazioni. La missione assegnata a Willard è più di una semplice esecuzione: è un incarico che lo destina a confrontarsi con il limite estremo dell'esperienza umana, con il collasso della civiltà e l'emergere di un primordiale, inarrestabile, orrore.
Risalendo il fiume, il tenente Willard avrà modo di toccare con mano l’assurdità di quel baraccone che chiamano guerra. L'inferno verdastro del Vietnam si rivela non solo un teatro di morte, ma un palcoscenico dell'assurdo beckettiano, dove la logica militare si dissolve in un delirio senza freni. Avamposti dimenticati che brulicano di un'insensata violenza, soldati drogati che sfidano la morte con l'incoscienza dei dannati, feste notturne tra bagliori di deflagrazioni come un'allucinazione lisergica orchestrata dal caos: ufficiali che bruciano villaggi con donne e bambini spargendo Napalm da elicotteri che si librano in aria al ritmo della Cavalcata delle Valchirie, soldati surfisti che solcano le onde sotto i bombardamenti, civili che vengono massacrati durante semplici controlli solo perché una ragazza aveva fatto un movimento brusco. È un mondo in cui l'orrore non è solo la violenza fisica, ma la completa disintegrazione della ragione, un baraccone di freaks dove ogni logica è sovvertita e l'esistenza stessa è una farsa macabra.
Questa discesa agli inferi non fu meno reale per Francis Ford Coppola e la sua troupe, la cui epopea produttiva nelle Filippine è divenuta leggenda, un'odissea altrettanto febbrile e folle quanto quella narrata sullo schermo. Tra tifoni devastanti, problemi di salute degli attori – il leggendario attacco cardiaco di Martin Sheen – e le continue pressioni di una produzione gigantesca e fuori controllo, il film divenne esso stesso un simulacro della guerra, una lotta incessante contro l'entropia, dove la realtà sfumava nel delirio creativo, e l'ossessione del regista si fuse con quella dei suoi personaggi. Un processo così immersivo che persino Martin Sheen confessò di sentirsi, a tratti, Willard.
Quando il tenente si troverà faccia a faccia con Kurtz ne subirà il fascino oscuro ma non verrà meno alla sua consegna. In quel tetro santuario di morte e filosofia, Willard e Kurtz si confrontano in un duello dialettico e spirituale, dove il fascino della barbarie e la logica della distruzione si contendono l'anima del protagonista. Un film torrenziale, mistico, tenebroso, in cui la fotografia di Vittorio Storaro e il montaggio di Walter Murch creano un'atmosfera allucinatoria e opprimente, quasi un viaggio sotto acido nell'inconscio collettivo.
Una prova recitativa di altissimo spessore per entrambi i protagonisti: Martin Sheen, la cui performance è intrisa di una palpabile angoscia esistenziale, e Marlon Brando, che pur con il suo peso e le sue eccentricità sul set, consegna un'interpretazione monolitica, quasi scultorea, che ha marchiato a fuoco l'immaginario collettivo.
Alcune scene appartengono alla memoria di ogni appassionato della settima arte, non semplici sequenze ma momenti epifanici che travalicano la narrazione per assurgere a simbolo. Una su tutte: la già citata Cavalcata delle Valchirie, una sinfonia di distruzione coreografata sulla sublime melodia wagneriana, non è solo una sequenza iconica; è un manifesto programmatico. Lì, nel sibilo delle pale degli elicotteri Apache che si librano carichi di napalm, si condensa l'arroganza coloniale e la furia cieca di una superpotenza che impone la sua volontà con una violenza estetica quasi operistica. Il sorriso beffardo e mefistofelico di Robert Duvall, nel ruolo del Colonnello Bill Kilgore, e la sua celebre battuta: “Mi piace l’odore del Napalm al mattino”, cristallizzano l'apatia morale e l'orgogliosa ignoranza di chi ha abbracciato l'orrore come una seconda pelle, trasformandolo in un bizzarro feticcio di virilità e potere. Questa sequenza, un'apoteosi del Kitsch bellico, eleva la brutalità a sublime macabro, rendendola un'esperienza tanto viscerale quanto intellettuale, un perfetto esempio di come Coppola sovverta le aspettative e sfidi il pubblico a confrontarsi con la bellezza distorta della guerra.
Il personaggio di Kurtz è naturalmente l’architrave narrativa di tutta la storia, così come lo è nel romanzo Heart of Darkness di Joseph Conrad da cui il film è ispirato e che John Milius ha filtrato in sceneggiatura, trasponendo l'angoscia colonialista fin de siècle in una parabola sul trauma post-Vietnam. Kurtz è una sorta di Totem della guerra, incarna tutto l’orrore che l’evento bellico porta con sé, ne è in qualche modo corrotto ma conserva una sua distorta razionalità. La sua mente è un labirinto di lucida follia, una biblioteca di pensieri che hanno oltrepassato il confine dell'umanità convenzionale. Le inquadrature di Kurtz, tutte in penombra, avvolto in un'oscurità che lo precede e lo segue, lo dipingono come una sorta di filosofo corrotto dalla tenebra che lo circonda, un oracolo di un'apocalisse interiore. Questa scelta visiva non è casuale: nasconde il mostro, ma ne amplifica la presenza psichica, suggerendo che la sua influenza è più un'idea, un virus mentale, che una persona fisica. È un Kurtz che ha guardato nell'abisso e, trovandolo vuoto, ha deciso di riempirlo con la sua propria, terrificante, logica.
L’orrore che si è scatenato nel Paese ha antiche radici ed è connaturato all’uomo, un tema che il monologo finale di Kurtz, apogeo filosofico del film, esplora con una brutalità disarmante. «Ho visto degli orrori, orrori che ha visto anche lei. Ma non avete il diritto di chiamarmi assassino. Avete il diritto di uccidermi, questo sì, ma non avete il diritto di giudicarmi. Non esistono parole per descrivere lo stretto necessario a coloro che non sanno cosa significhi l’orrore. L’orrore ha un volto e bisogna essere amici dell’orrore. L’orrore ed il terrore morale ci sono amici. In caso contrario allora diventano nemici da temere. Sono i veri nemici…». Queste parole non sono solo una giustificazione, ma una rivelazione sconvolgente: Kurtz non è un pazzo qualunque, ma un uomo che, avendo sondato le profondità della depravazione umana, ha compreso che l'unica via per sopravvivere – o per dominare – in quel caos è abbracciare l'orrore stesso, farselo amico, integrarlo nella propria psiche. Egli propone una logica contorta ma inconfutabile, una critica radicale alla morale borghese incapace di comprendere la vera natura del conflitto, della barbarie, della condizione umana quando le impalcature della civiltà crollano. Il suo assassinio da parte di Willard non è solo l'esecuzione di un ordine, ma un rito sacrificale, il tentativo disperato di spegnere una fiamma che brucia in ogni angolo oscuro dell'animo umano, sapendo però che la scintilla, una volta accesa, è destinata a propagarsi.
Francis Ford Coppola riesce dunque nell’impresa di documentare questo orrore e di trasformarlo in arte, regalandoci un caposaldo del cinema moderno, un'opera titanica che si erge come un monumento alla follia e alla grandezza del "Nuovo Cinema Hollywoodiano". Senza giudizi, senza falsi infingimenti, senza artifici retorici: solo grande cinema, capace di interrogare le radici del male e la fragilità della civilizzazione con una potenza visiva e intellettuale che ancora oggi risuona con la forza di un tuono lontano, ma inesorabile.
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