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Arancia Meccanica

1971

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A Clockwork Orange è una sorta di punto d’arrivo nel percorso artistico di Stanley Kubrick. Dal rigore strategico di Orizzonti di gloria all'esplorazione quasi spirituale e trascendentale di 2001: Odissea nello spazio, Kubrick aveva costantemente sondato i limiti della condizione umana e il rapporto tra individuo e sistema. Con Arancia Meccanica, egli compie un'immersione ben più viscerale e scomoda, abbandonando gli orizzonti stellari per un'esplorazione distopica delle pulsioni più oscure radicate nell'animo umano e, soprattutto, nella reazione della società a tali aberrazioni. Non è solo un punto d'arrivo, ma quasi un saggio definitivo sulla dicotomia tra libero arbitrio e condizionamento, una tematica che avrebbe continuato a lambire il suo cinema, pur se con toni diversi.

Rappresenta infatti il suo sforzo di avvicinarsi all’estremismo comportamentale giovanile e ai conseguenti disordini sociali legati a fenomeni di violenza e repulsione delle norme civili. Il film non si limita a ritrarre la devianza giovanile, ma ne analizza la radice in una società disfunzionale e iper-tecnologizzata, dove la morale sembra essere un optional e l'individuo si trova smarrito tra la violenza bruta e il controllo autoritario. La Londra futuristica e desolata, con le sue architetture brutaliste e gli interni kitsch e alienanti, diventa la metafora di un Occidente che, negli anni '70, iniziava a fare i conti con le proprie contraddizioni, tra l'esplosione delle controculture e la crescente domanda di ordine e sicurezza, spesso a scapito delle libertà individuali.

Il film è tratto dall’omonimo romanzo di Burgess in cui la violenza è la protagonista della storia in ogni sfaccettatura: da quella fisica a quella più strisciante che parte dalla psiche e si estende, e infine prevarica, il pensiero di altri esseri umani. La trasposizione kubrickiana del testo di Anthony Burgess non è una mera riproduzione, ma una rilettura acuta e spietata delle implicazioni filosofiche sottese al concetto di "arancia meccanica": un'entità biologicamente viva (un'arancia, simbolo di natura organica) ma meccanicamente condizionata (un orologio, simbolo di innaturalità e coercizione). La violenza, lungi dall'essere solo un atto fisico, si manifesta come perversione del desiderio, come strumento di controllo sociale e, infine, come negazione della dignità individuale. La scelta di Kubrick di omettere il capitolo finale del romanzo, in cui Alex sembra maturare autonomamente, rafforza la sua visione nichilista e disincantata: l'uomo, secondo il regista, è destinato a un ciclo perpetuo di violenza e sottomissione, senza redenzione intrinseca.

Alex si aggira con i suoi compari, i sedicenti Drughi, in una città spettrale abbandonandosi ad efferatezze di ogni tipo: picchia un homeless sotto un ponte, si batte contro una banda rivale in un teatro abbandonato, fa irruzione nella casa di uno scrittore e violenta sua moglie a tempo di Singin’ In The Rain (scena ideata su improvvisazione dallo stesso Malcolm McDowell). Il carisma glaciale di Malcolm McDowell nei panni di Alex DeLarge è il cuore pulsante di questa rappresentazione del male. La sua recitazione, tanto calibrata quanto disturbante, incarna la giovinezza perduta e corrotta, il genio perverso che trova espressione nella musica classica quanto nella brutalità più efferata. La scena dello stupro a tempo di "Singin' In The Rain", come ben noto, fu una geniale intuizione di McDowell sul set, ma la sua eco va ben oltre l'aneddoto: essa cristallizza la capacità del film di sovvertire l'immaginario collettivo, trasformando un'icona di gioia innocente in una colonna sonora per l'orrore, un meccanismo che eleva la violenza a vera e propria performance artistica, provocando nello spettatore un disagio profondo e duraturo. L'estetica dei Drughi – le loro uniformi bianche, i cappelli a bombetta, l'occhio truccato di Alex – è divenuta un archetipo di ribellione nichilista, un'iconografia potente che ha influenzato generazioni di artisti e designer, e che ancora oggi risuona come monito di un'inquietudine sociale mai del tutto sopita.

Ma il destino ha in serbo qualcosa di speciale per lui: quella stessa ferocia che ha riversato sul mondo gli sarà dantescamente ritorta contro. La "cura Ludovico" non è una semplice punizione, ma il punto focale del dibattito etico del film. È un esperimento di ingegneria sociale che mira a estirpare il male non attraverso la comprensione o la rieducazione, ma attraverso il condizionamento pavloviano più brutale. La scansione lisergica dei filmati, accompagnata da costrizioni fisiche e farmaceutiche, trasforma Alex da carnefice a vittima di un sistema altrettanto tirannico. Il suo libero arbitrio viene annientato, la sua capacità di scegliere tra bene e male – se mai l'avesse avuta – viene estirpata, lasciando un guscio vuoto, un'arancia meccanica incapace di violenza, ma anche di qualsiasi reazione umana autentica. Il film ci interroga: è preferibile un uomo malvagio che sceglie liberamente il male, o un uomo "buono" che non può scegliere altro che la bontà, perché condizionato a tal punto da aver perso la propria umanità?

Una volta catturato dalla polizia infatti entrerà in un programma speciale per la riabilitazione dei casi più violenti subendo la visione forzata di filmati cruenti montati con scansione lisergica. Una volta fuori di prigione subirà la vendetta di quella società che aveva calpestato. La "vendetta" della società è intrisa di un'ironia amara e spiazzante. Alex, l'aggressore impunito, diventa il bersaglio di chiunque: i suoi ex "Drughi", ora poliziotti, lo picchiano; l'homeless da lui stesso malmenato lo aggredisce; lo scrittore, la cui casa fu profanata, lo tortura. Ogni interazione è un contrappasso crudele, una dimostrazione che il male, una volta scatenato, genera un ciclo ininterrotto di violenza e rappresaglia. Il finale, lungi dall'offrire una catarsi o una redenzione, lascia lo spettatore con un senso di profonda inquietudine. La riabilitazione di Alex è solo una farsa politica, un successo apparente che maschera il fallimento etico della società stessa. L'ultima immagine, con Alex che si immagina un'orgia tra la folla che lo osanna, suggerisce che la sua natura intrinseca non è cambiata, ma è stata semplicemente repressa, pronta a riemergere non appena il condizionamento si allenterà, o forse, semplicemente, che la società è pronta ad accettare il "mostro" se questo serve i suoi scopi politici. È un cerchio che si chiude, senza speranza.

Innumerevoli le scene memorabili: lo stupro a tempo di Singin in The Rain, l’orgia sulle note di Ludovico Van Beethoven, le serate al Moloko a trangugiare Latte Più. Oltre alle già citate, l'intera struttura visiva e sonora del film è un tour de force. L'uso magistrale della Nona Sinfonia di Beethoven, trasformata da inno alla fratellanza universale in colonna sonora per le visioni più perverse di Alex, è un esempio lampante del genio kubrickiano nel pervertire il familiare per creare il terrificante. Le sequenze dell'orgia o dei "cure" sessioni non sono solo iconiche per la loro audacia visiva, ma per il modo in cui la musica classica si fonde con la brutalità e la distopia, elevando il disagio a un livello quasi subliminale. E poi il Moloko Bar: un tripudio di arte e design futuristico-kitsch, con sculture falliche e arredi surreali, un tempio di alienazione dove il "Latte Più", una miscela drogata, serve a preparare i Drughi per le loro "serate". Tutto concorre a creare un universo coeso e sconvolgente, un'opera d'arte complessa e stratificata che, cinquant'anni dopo la sua uscita, continua a provocare, a far riflettere sulla violenza insita nell'uomo e sulla violenza, ancor più subdola, di un sistema che tenta di controllarla, finendo per annullare l'essenza stessa dell'individuo. Un capolavoro imprescindibile, scomodo e profetico, che non smette di riverberare nella coscienza collettiva.

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