Audition
1999
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Regista
Un'esca cinematografica di rara, sadica perfezione. Un trattato sulla predazione che inverte i ruoli con la precisione di uno stiletto chirurgico. Takashi Miike, nel 1999, non si limita a girare un film dell'orrore; orchestra una discesa agli inferi che inizia come un dramma familiare di Yasujirō Ozu, per poi squarciare il velo della cortesia formale giapponese e rivelare un cuore di tenebra degno di un Francis Bacon sotto acido. "Audition" è una trappola per lo spettatore, costruita con la pazienza di un ragno e la ferocia di una mantide. La sua architrave è un inganno strutturale che rispecchia l'inganno narrativo al suo centro, un gioco di specchi che riflette le nostre stesse proiezioni e i desideri distorti che informano la ricerca dell'amore.
Il film si apre con la quieta malinconia di Shigeharu Aoyama, un produttore cinematografico vedovo, la cui solitudine è dipinta con toni pastello, quasi rassicuranti. Il suo mondo è quello della borghesia tokiota di fine millennio, un universo di interni ovattati e conversazioni educate, dove il dolore è sublimato in una nostalgia gentile. La proposta del suo amico e collega Yoshikawa – inscenare una finta audizione per trovare ad Aoyama una nuova moglie – viene presentata come un'idea bizzarra, quasi comica. Ma è qui che Miike pianta il primo, subdolo seme del terrore. L'audizione non è solo un espediente narrativo; è una potente metafora della mercificazione dei rapporti umani nell'era tardo-capitalista. Aoyama non cerca una partner, ma una candidata che corrisponda a un elenco di requisiti, un feticcio di purezza e sottomissione. Cerca una "yamato nadeshiko", l'ideale incarnato della femminilità giapponese, un fiore delicato da coltivare nel vaso della sua vita borghese. La sua colpa, la sua hamartia tragica, non è la malvagità, ma una cecità sentimentale e patriarcale. Egli proietta su Asami Yamazaki, l'ex ballerina dalla bellezza eterea e dal passato misterioso, un'immagine costruita a tavolino, ignorando ogni dissonanza, ogni crepa nell'idilliaca facciata.
Questa prima metà del film è un capolavoro di mimetismo stilistico. Miike adotta la grammatica visiva del cinema giapponese classico: inquadrature statiche, dialoghi misurati, un ritmo contemplativo. Lo spettatore viene cullato in una falsa sicurezza, convinto di assistere a una delicata e non convenzionale storia d'amore tra due anime sole. Ma sotto la superficie, l'inquietudine serpeggia. Le referenze di Asami sono introvabili, il suo ex mentore è scomparso, il suo appartamento è spoglio, quasi un non-luogo, dominato da un telefono che attende in un silenzio tombale e da un misterioso sacco che si contorce debolmente in un angolo. È qui che il film inizia a parlare un'altra lingua, quella del thriller psicologico. Le lunghe, immobili attese di Asami accanto al telefono sono sequenze di una tensione quasi insostenibile, che trasformano un oggetto quotidiano in un totem di ossessione patologica. L'amore, o quello che Aoyama crede tale, si rivela essere un monologo, una proiezione narcisistica che non ha mai veramente visto la persona dall'altra parte.
Se la prima parte di "Audition" è un'opera di Ozu pervertita, la seconda è un incubo lynchiano che precipita in un abisso cronenberghiano. Il punto di non ritorno è un viaggio in una cittadina desolata, un'incursione nel rimosso di Asami che dissotterra frammenti di un trauma indicibile. E poi, il risveglio. Aoyama si ritrova paralizzato nel suo stesso salotto, lo spazio borghese rassicurante trasformato in un teatro di tortura. Asami, vestita di pelle nera e guanti di gomma, non è più l'oggetto passivo dello sguardo maschile, ma il soggetto attivo, la carnefice che dirige la scena. La celebre sequenza della tortura, con i suoi aghi da agopuntura piantati in punti nevralgici e il filo di pianoforte usato come sega, è passata alla storia del cinema per la sua brutalità grafica. Ma ridurla a mero "shock value" sarebbe un errore critico madornale. È la più letterale e terrificante inversione della prospettiva che si possa immaginare. Colui che scrutava, ora è scrutato. Colui che oggettivava, ora è ridotto a pura carne sofferente. "Kiri, kiri, kiri, kiri..." (Taglia, taglia, taglia...), sussurra Asami con una cantilena infantile mentre si appresta a recidere il piede di Aoyama. In quel sussurro c'è tutta la dissociazione di una psiche frantumata, la vendetta di un trauma che si perpetua, trasformando la vittima in un mostro che parla il linguaggio della violenza che le è stata insegnata.
La genialità di Miike sta nel negare allo spettatore qualsiasi facile appiglio morale. "Audition" è stato letto come un film proto-femminista, un racconto di vendetta contro il patriarcato. Ma è una lettura incompleta, quasi consolatoria. Asami non è un'eroina vendicatrice, non è un angelo sterminatore che punisce il maschio predatore. È un'Erinni, una furia nata da abusi così profondi da averla de-umanizzata. La sua violenza è una risposta patologica, non una soluzione politica. Il film, infatti, non critica solo il patriarcato incarnato da Aoyama, ma anche l'incapacità della società di vedere e curare le sue vittime. Asami è il prodotto tossico di un sistema che prima la abusa e poi la ignora. La sua follia è l'urlo silenzioso di un dolore che non ha mai trovato parole, e che può esprimersi solo attraverso la profanazione del corpo altrui. In questo, il film si avvicina più a una tragedia greca che a un manifesto ideologico: la colpa di Aoyama scatena una forza primordiale e distruttiva che travolge tutto, senza alcuna possibilità di catarsi o redenzione.
Il finale, con la sua ambiguità onirica che confonde sogno, flashback e realtà, è la chiusura perfetta di un cerchio kafkiano. Forse l'intera sequenza di tortura è solo un'allucinazione di Aoyama, la manifestazione della sua paura inconscia di fronte all'imperscrutabile femminilità di Asami. O forse è terribilmente, fisicamente reale. Miike ci lascia nel dubbio, perché la verità psicologica dell'evento è più potente della sua veridicità fattuale. Aoyama ha evocato il suo stesso incubo nel momento in cui ha deciso di "scrivere" la sua partner ideale invece di incontrarne una reale. Il film, basato sull'omonimo romanzo di Ryū Murakami – un altro maestro nell'esplorare le patologie della modernità giapponese –, cattura perfettamente lo spirito di un'epoca, quella della "Lost Decade" degli anni '90, in cui le certezze economiche e sociali del Giappone del boom erano crollate, lasciando un vuoto di senso e un'ansia diffusa sotto la superficie di una società iper-regolata. "Audition" è il mostro che emerge da quel vuoto. È il film che ci ricorda che dietro ogni maschera di cortesia può nascondersi un abisso, e che l'amore, quando è solo un'audizione per un ruolo predefinito, può trasformarsi nel più terrificante degli spettacoli dell'orrore. Un'opera fondamentale, un'incisione a fuoco nella carne viva del cinema, la cui visione non si limita a turbare: infetta.
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