Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Avatar

2009

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Un atto di fede cinematografica. Ecco cosa fu, nel 2009, la visione di Avatar. Non si andava in sala per assistere a un film, ma per partecipare a un rito collettivo, una sorta di pellegrinaggio tecnologico verso una frontiera dell'immagine fino ad allora solo teorizzata. Gli occhialini 3D, aggeggi di plastica distribuiti come paramenti sacri all'ingresso del tempio-multisala, erano il lasciapassare per un'esperienza che prometteva di essere non solo visiva, ma propriocettiva. James Cameron, demiurgo ossessivo e pioniere con il piglio di un ingegnere rinascimentale, non ci chiedeva di guardare un mondo, ma di abitarlo.

E, per Giove, che mondo. Pandora. Un tripudio chimerico che sembrava partorito da una jam session tra l'illustratore Roger Dean (le cui copertine per gli Yes echeggiano nelle montagne fluttuanti Hallelujah), la biologia speculativa di Wayne Barlowe e un documentarista della BBC sotto l'effetto di sostanze psicotrope. Ogni pianta, ogni creatura, ogni insetto luminescente era il frutto di una world-building così meticolosa da sfiorare il patologico. Cameron non si limitò a immaginare un ecosistema alieno; ne scrisse la tassonomia, ne simulò la fisica, ne concepì la rete neurale che connetteva ogni forma di vita in un unico, panteistico super-organismo chiamato Eywa. Era la concretizzazione di un'utopia transumanista, la traduzione in gigabyte dell'ipotesi Gaia di James Lovelock: un pianeta senziente, un paradiso perduto che la nostra specie, nella sua hybris industriale, aveva irrimediabilmente corrotto e dimenticato.

Il paradosso, tanto accecante quanto la flora bioluminescente di Pandora, risiede nel cuore pulsante del film. A fronte di una rivoluzione visiva che ha ridefinito i paradigmi del blockbuster, imponendo per un decennio la dittatura del 3D, batte una struttura narrativa così archetipica da rasentare il familiare. La critica più pigra, eppure non del tutto errata, lo ha liquidato come "Balla coi Lupi nello spazio" o "Pocahontas con gli alieni blu". Ed è vero. La traiettoria di Jake Sully, marine paraplegico che trova una nuova vita e una nuova causa nel corpo di un Na'vi, è un ricalco quasi perfetto del monomito campbelliano, il Viaggio dell'Eroe nella sua accezione più pura e incontaminata. L'uomo bianco/civilizzato che si infiltra tra i "selvaggi" per conto di una forza colonizzatrice, per poi esserne sedotto, "diventare nativo" e infine guidarli nella ribellione contro i suoi stessi simili.

Ma liquidare questa scelta come semplice pigrizia narrativa significa non comprendere la strategia di Cameron. Il regista, da sempre un formidabile narratore populista (nel senso più nobile del termine), comprende che per traghettare il pubblico in un universo così radicalmente alieno, così visivamente soverchiante, è necessario un appiglio emotivo solido, una struttura riconoscibile che funga da filo d'Arianna nel labirinto del nuovo. La semplicità della trama non è un bug, è una feature. Serve a rendere universale e immediatamente decodificabile un racconto che, altrimenti, avrebbe rischiato di collassare sotto il peso della sua stessa, strabordante immaginazione. I personaggi sono archetipi a tutto tondo, maschere di una commedia dell'arte fantascientifica: il soldato dal cuore d'oro (Sully), la principessa guerriera (Neytiri), lo scienziato idealista (Grace Augustine) e il villain monolitico, quasi fumettistico nella sua malvagità priva di sfumature (il Colonnello Quaritch, un capitano Achab la cui balena bianca è un intero pianeta).

In questo, Avatar è un'opera profondamente e orgogliosamente classica, quasi reazionaria nella sua fede incrollabile nel potere delle storie fondative. Ma è anche un film squisitamente contemporaneo, un sismografo sensibilissimo delle ansie del suo tempo. Uscito nel pieno delle guerre in Iraq e Afghanistan, il film mette in scena una critica feroce e per nulla velata all'imperialismo militare e allo sfruttamento corporativo. La RDA (Resources Development Administration) è la Compagnia delle Indie Orientali in versione spaziale, e il suo obiettivo, l'ineffabile "Unobtanium", è la quintessenza meta-narrativa di ogni risorsa naturale mai depredata in nome del profitto. La distruzione dell'Alberocasa, sequenza di una potenza visiva e sonora straziante, non è solo la caduta di un villaggio: è la deforestazione dell'Amazzonia, è lo sfregio delle terre dei Nativi Americani, è l'eco di ogni "shock and awe" perpetrato da una superpotenza tecnologicamente soverchiante contro un nemico "primitivo".

La vera genialità del film, tuttavia, sta nel suo livello meta-testuale. Avatar è, in definitiva, un film sull'esperienza stessa del cinema. Jake Sully, confinato su una sedia a rotelle, può correre, saltare e volare solo quando si "connette" al suo avatar. Non è forse questa la stessa promessa che il cinema fa allo spettatore? Seduti immobili al buio di una sala, ci connettiamo a un corpo altro, a un'identità fittizia, e attraverso di essa viviamo esperienze che ci sono precluse. Il pod di collegamento è il proiettore, il corpo del Na'vi è il personaggio sullo schermo, e l'esperienza di Pandora è l'immersione nel mondo diegetico. Cameron ha costruito l'allegoria più costosa e spettacolare di sempre sul potere del proprio medium. Ci ha detto: "Guardate, la tecnologia può alienarvi, distruggere il vostro mondo, ma può anche essere lo strumento per una palingenesi, per una connessione più profonda con un altro universo". In questo senso, Avatar è il figlio legittimo tanto di Lumière quanto di Gibson, un'opera che fonde la meraviglia del treno che arriva alla stazione con l'incubo e l'estasi del "jacking in" nel cyberspazio.

C'è poi una corrente sotterranea, quasi spirituale, che lo eleva al di sopra del semplice action movie. L'idea di Eywa, questa coscienza collettiva che lega ogni essere vivente, riecheggia il concetto di "noosfera" di Teilhard de Chardin, ma lo spoglia della sua connotazione teologica per riportarlo a una dimensione ecologica e immanente. È un romanticismo digitale, un sublime 2.0. Come un Wordsworth traslato nell'era del rendering poligonale, Cameron ci invita a riscoprire una connessione con la natura che abbiamo reciso, e lo fa paradossalmente attraverso il più alto grado di artificio tecnologico mai raggiunto. L'estasi che Jake prova nel legare la sua coda neurale al suo Ikran (il drago-pterosauro) non è solo un rito di passaggio tribale; è il simbolo di un'unione panica con il mondo naturale, un'esperienza sinestetica che il mondo moderno, grigio e disincantato, non può più offrire.

Certo, si può criticare il manicheismo della narrazione, la caratterizzazione a tratti superficiale, i dialoghi che non aspirano certo a Pinter. Avatar non è un film di sottigliezze, ma di poderose, elementari pennellate. È un affresco colossale, un'opera wagneriana che sacrifica la finezza psicologica sull'altare della grandiosità mitologica e dello stupore sensoriale. Non è un film che si analizza, è un film in cui ci si perde. A più di un decennio di distanza, svanito l'effetto novità del 3D e inflazionato l'uso della CGI che esso stesso ha sdoganato, la sua potenza rimane intatta. Rimane come un monolite, un artefatto culturale che segna un prima e un dopo, il sogno febbrile e iper-tecnologico di un regista che ha usato due miliardi di dollari non tanto per raccontare una storia, quanto per costruire una cattedrale digitale e invitarci a pregare al suo interno. Un atto di fede, appunto. E ancora oggi, è difficile non essere tra i credenti.

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