Baby Driver - Il genio della fuga
2017
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Regista
Un film non è quasi mai una singola cosa. È, piuttosto, una sovrapposizione di linguaggi, un’intersezione di codici. Ma raramente un’opera cinematografica riesce a essere, con la stessa sfacciata e gioiosa coerenza, un heist movie, un musical, una storia d’amore e un saggio sulla poetica della fuga come Baby Driver di Edgar Wright. Quest'opera non si limita a usare la musica come colonna sonora; la eleva a principio narrativo, a motore primo dell'azione, a vera e propria sintassi della messa in scena. Se il cinema è, nella sua essenza, movimento ritmico di immagini, allora Wright ha semplicemente deciso di spingere questo assunto alla sua più logica ed esaltante conclusione.
Il film si presenta come una sinfonia d'asfalto, un balletto meccanico in cui ogni sgommata, ogni cambio di marcia, ogni proiettile esploso è meticolosamente sincronizzato con la playlist che pulsa nelle orecchie del suo protagonista. Baby, il nostro pilota dal volto d'angelo e dal piede di piombo, non è semplicemente un autista per rapine; è un direttore d'orchestra la cui bacchetta è il volante di una Subaru Impreza WRX. Il suo acufene, ricordo perenne di un trauma infantile, lo costringe a un’immersione costante nella musica, trasformando un deficit in un superpotere. La sua realtà non è mediata dalle parole o dalle interazioni convenzionali, ma filtrata attraverso i beat di The Jon Spencer Blues Explosion, le melodie dei Queen o le armonie agrodolci di Simon & Garfunkel. In questo, Baby è una figura profondamente moderna, un eroe dell'era dell'iPod che cura la propria esistenza come una playlist, tentando di annegare il rumore caotico del mondo con una sequenza di brani perfettamente scelti. Egli è, a tutti gli effetti, l'autore della propria colonna sonora esistenziale, un DJ che remixa la violenza e la disperazione in una traccia di pura, adrenalinica evasione.
L'approccio di Wright è quasi avanguardistico nella sua esecuzione pop. Se dovessimo cercare un parallelo nel mondo dell'arte, potremmo scomodare il Futurismo. Filippo Tommaso Marinetti, nel suo manifesto del 1909, esaltava "l'amore del pericolo, l'abitudine all'energia e alla temerarietà", dichiarando che "un'automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo... un'automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bella della Vittoria di Samotracia". Edgar Wright, forse senza volerlo, ha creato il più compiuto manifesto cinematografico di questa sensibilità, epurandola dalla sua carica ideologica e distillandola in pura estasi cinetica. Le automobili in Baby Driver non sono meri veicoli; sono pennelli che dipingono traiettorie sull'asfalto, strumenti musicali i cui motori rombano in armonia con la batteria di una canzone rock. Ogni inseguimento è una performance artistica, una coreografia di lamiera e fumo che celebra la bellezza della velocità e la precisione del gesto meccanico.
Tuttavia, ridurre il film a un mero esercizio di stile, per quanto virtuosistico, sarebbe un errore. Sotto la carrozzeria lucida e rombante, pulsa un cuore tematico di grande fascino. Baby Driver è una riflessione sulla dicotomia tra la realtà curata che costruiamo per noi stessi e il mondo esterno, brutale e imprevedibile, che minaccia costantemente di infrangerla. La playlist di Baby è la sua fortezza della solitudine, una bolla acustica che lo protegge dal cinismo e dalla violenza dei suoi "colleghi": il gelido stratega Doc (un Kevin Spacey pre-scandalo, la cui presenza oggi aggiunge un involontario strato di complessità oscura), il folle e imprevedibile Bats (Jamie Foxx) e la coppia apparentemente perfetta ma intrinsecamente tossica di Buddy e Darling (Jon Hamm e Eiza González). Questi personaggi sono le note stonate che cercano di inserirsi nella sua melodia perfetta. Incarnano il caos, la violenza non coreografata, il rumore bianco del mondo criminale che nessuna canzone può sovrastare per sempre.
In questo scontro tra l'universo interiore di Baby e la realtà esterna, si inserisce Debora (Lily James), la cameriera di una tavola calda che diventa il suo sogno di fuga. Se Baby è definito dalle canzoni che ascolta, Debora è la canzone che non ha ancora sentito, la promessa di un futuro non ancora scritto. È una figura quasi mitologica, un archetipo da canzone pop anni '50 catapultato nel presente: la ragazza dal cuore d'oro che aspetta l'eroe per partire verso il tramonto. La loro storia d'amore, pur nella sua disarmante semplicità, funziona proprio perché appartiene più al regno della musica che a quello del realismo psicologico. Il loro legame non si costruisce su dialoghi complessi, ma su scambi di canzoni, su una sintonia di anime che vibrano alla stessa frequenza. Debora non è tanto un personaggio tridimensionale quanto un'idea, un ritornello orecchiabile che si insinua nella testa di Baby e gli offre una via d'uscita, una "traccia B" per la sua vita.
La maestria di Wright sta nel modo in cui orchestra la collisione di questi due mondi. Finché Baby è al volante, è in controllo. La città di Atlanta diventa il suo palcoscenico, le strade la sua partitura. Ma quando scende dall'auto, quando la musica si ferma, la realtà lo assale. La violenza diventa sgraziata, il sangue reale, le conseguenze ineludibili. La seconda metà del film abbandona progressivamente la leggerezza pop per abbracciare i toni più cupi del noir, culminando in un finale in cui l'idillio musicale di Baby si infrange contro la furia vendicativa di Buddy, trasformato in un T-1000 del crimine, un terminator implacabile che rappresenta il fallimento di ogni fantasia di evasione. È il momento in cui la playlist finisce e Baby è costretto ad affrontare il silenzio, e con esso, le sue responsabilità.
È impossibile non confrontare Baby Driver con altri film che hanno tentato di fondere azione e musica. Penso al minimalismo esistenziale di Drive di Nicolas Winding Refn, dove il silenzio del protagonista era denso quanto la colonna sonora synth-pop. Ma mentre il Driver di Refn è una figura quasi astratta, un fantasma metropolitano, il Baby di Wright è un'esplosione di energia repressa, un personaggio la cui interiorità trabocca attraverso gli auricolari. O ancora, si potrebbe pensare all'operazione di Walter Hill in Strade di Fuoco, un'altra "favola rock & roll" che costruiva un universo stilizzato e atemporale. Wright, però, compie un passo ulteriore: non crea un mondo che assomiglia a un video musicale; trasforma il mondo reale in un video musicale, piegando la fisica e la logica narrativa alle esigenze del ritmo. L'aneddoto sulla produzione è illuminante: Wright ha concepito il film per oltre due decenni, ottenendo i diritti per ogni singola canzone prima ancora di scrivere la sceneggiatura definitiva, che è stata poi costruita attorno alla struttura, ai cambi di tempo e persino ai testi dei brani scelti. Non è musica al servizio del film, ma il film al servizio della musica.
In definitiva, Baby Driver è un'opera di rara purezza autoriale, un film che è l'essenza stessa del suo regista: ipercinetico, meticolosamente costruito, innamorato della cultura pop e capace di trovare profondità emotiva nel formalismo più estremo. È un'ode alla capacità del cinema di creare mondi sinestetici, dove il suono diventa immagine e il movimento si fa melodia. È la dimostrazione che un inseguimento in auto può avere la stessa grazia di un pas de deux e la stessa carica emotiva di un assolo di chitarra. In un'epoca di universi cinematografici costruiti a tavolino e di franchise che privilegiano la quantità sulla qualità, Baby Driver si erge come un glorioso, assordante one-shot, un brano perfetto che si ascolta dall'inizio alla fine, senza mai saltare una traccia. Un capolavoro che non chiede di essere analizzato, ma di essere vissuto a tutto volume.
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