La Bella e la Bestia
1946
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Registi
Jean Cocteau rilegge la celeberrima fiaba della Beaumont in chiave onirico-danzante. Non una semplice trasposizione, bensì una vera e propria meditazione visiva sull'essenza della metamorfosi, dell'amore e della percezione, infondendo nel racconto un lirismo che solo la settima arte, plasmata da una mente così eclettica e visionaria, può raggiungere. L'approccio di Cocteau è distante anni luce da una narrativa lineare o didascalica; è un'immersione nell'archetipo, una coreografia di simboli e suggestioni che trascendono la parola scritta, permeando ogni fotogramma di una grazia quasi sovrannaturale.
Ne esce, manco a dirlo, un capolavoro cinematografico che fa tabula rasa del bagaglio neorealista e strizza l’occhio a surrealismo e dadaismo. Mentre l'Italia e gran parte dell'Europa si dibattevano ancora nelle cicatrici del dopoguerra, riflettendo la cruda realtà della ricostruzione attraverso la lente asciutta e spesso disincantata del neorealismo – pensiamo all'immediatezza viscerale di Rossellini o De Sica – Cocteau, con un atto di audace devianza estetica, operò una vera e propria tabula rasa di quel pragmatismo cinematografico. La sua visione fu un deliberato rifiuto della grana della realtà per abbracciare invece la levigata superficie del sogno e la logica interna dell'inconscio. Il film non solo "strizza l'occhio" ma si immerge completamente nelle correnti estetiche del surrealismo e del dadaismo, attingendo alla loro fascinazione per l'irrazionale, per il subconscio e per la decostruzione della logica borghese. Cocteau, che era stato egli stesso una figura centrale nel fermento artistico parigino degli anni '20 e '30 – poeta, drammaturgo, cineasta e intellettuale a tutto tondo, amico di Picasso, Satie e Stravinskij – intuisce e materializza una bellezza che non è di questo mondo. Nel suo castello incantato, le mani dei candelabri si tendono in un'inquietante e sublime accoglienza, i busti di marmo spiano con occhi vivi, e ogni oggetto d'arredo sembra pulsare di una vita propria, svelando una dimensione nascosta, quasi animistica, della materia. È un cinema che respira l'aria di André Breton e Man Ray, non per mera emulazione, ma per una profonda affinità con l'idea che l'arte debba rompere le catene del reale per esplorare le vertigini dell'immaginario, rivelando verità più profonde attraverso l'allegoria e il fantastico. Il film diventa così un'esperienza quasi ipnotica, un invito a perdere i confini tra veglia e sonno, tra logica e follia, in un cortocircuito di bellezza pura e perturbante.
La storia è quella di Belle, quarta figlia di un ricco signore che cade in rovina. Ma l'archetipo della fiaba, pur mantenuto nella sua struttura essenziale, viene qui sublimato attraverso la psicologia dei personaggi e la sottile critica sociale. Belle non è una figura passiva, ma una giovane donna la cui purezza d'animo e la cui capacità di vedere oltre le apparenze la distinguono nettamente dal cinismo e dalla superficialità del mondo che la circonda, in primis quello delle sue sorelle e dei suoi fratelli, avidi e disincantati.
La ragazza si prostra ad umili lavori mentre i fratelli conducono la stessa vita dissoluta. Questa dicotomia tra la virtù silenziosa di Belle e la dissolutezza ostentata della sua famiglia – un topos fiabesco che Cocteau eleva a scontro tra materialismo e spiritualità – serve a rafforzare la sua unicità, a renderla l'unica in grado di compiere il sacrificio supremo. La sua abnegazione non è mera sottomissione, ma una forza morale che la condurrà a una comprensione superiore dell'amore e della bellezza.
Belle dovrà poi concedersi prigioniera alla Bestia nel suo castello per salvare il padre. È qui che il genio di Cocteau e l'interpretazione indimenticabile di Jean Marais – l'attore feticcio del regista e suo compagno di vita – si fondono in un'immagine iconica e profondamente malinconica. La Bestia di Cocteau non è solo un mostro esteriore, ma l'incarnazione di una sofferenza interiore, un principe condannato a celare la sua umanità sotto una maschera ferina e dolente. La meticolosa e all'epoca estenuante trasformazione di Marais, con l'applicazione di protesi e pellicce che richiedevano ore di trucco, non è un semplice effetto speciale, ma diventa parte integrante della narrazione: la pelle animale che lo ricopre è il simbolo della sua condanna, ma anche il velo dietro cui si nasconde la sua sensibilità più profonda. Il ruggito che egli emette, un grido straziante più che minaccioso, e le volute di fumo che escono dalle sue narici, evocano non terrore, ma una tragica solitudine.
Ne nascerà un grande amore oltre ogni tempo e misura umana. Non si tratta di un colpo di fulmine, bensì di un lento, quasi impercettibile processo di riconoscimento. Belle impara a guardare con il cuore, oltre la scorza bestiale, scoprendo l'anima gentile e tormentata che vi si cela. È un amore che sfida i pregiudizi e le convenzioni, un inno alla bellezza interiore e alla forza della compassione. Il film suggerisce che la vera trasformazione non è quella del mostro in principe, ma quella della percezione di Belle, che attraverso la sua pura visione, redime la Bestia, svelando la sua vera, nobile natura. È una lezione universale sulla capacità dell'amore di trascendere le apparenze e di rivelare l'essenza più autentica dell'altro.
Scenografia e fotografia curatissime grazie all’apporto artistico dello scenografo Christian Bérard. Ma il cuore pulsante di questa magia visiva risiede nella cura maniacale di ogni dettaglio scenografico e fotografico, elevato a sublime forma d'arte grazie all'apporto geniale dello scenografo Christian Bérard e alla maestria luministica del direttore della fotografia Henri Alekan. Bérard, pittore e illustratore di moda di fama internazionale, celebre per la sua capacità di infondere poesia e mistero anche negli oggetti più comuni, diede vita a un castello che è esso stesso un personaggio: non una semplice dimora, ma un labirinto di chiaroscuri e di inganni visivi, dove le pareti sembrano respirare e le statue celano un'anima inquieta. La sua estetica, spesso definita "barocco onirico", si manifesta nell'opulenza decadente degli interni, nelle rose luminescenti che sembrano pulsare di vita propria, e in quel senso di intrusione in un mondo antico e dimenticato, quasi un tableau vivant rinascimentale distorto da un filtro surrealista.
Alekan, dal canto suo, non si limitò a illuminare, ma scolpì la luce, trasformandola in un elemento narrativo essenziale. Il suo bianco e nero, tutt'altro che documentaristico, è di una ricchezza tonale sbalorditiva, intriso di contrasti drammatici che enfatizzano l'aura di mistero e l'ambivalenza tra la Bestia e l'uomo. Le nebbie che avvolgono il bosco, i giochi di luce sulle vesti di Belle, il chiarore quasi etereo che a tratti pervade il castello: ogni inquadratura è una pittura vivente, un omaggio ai maestri fiamminghi e alla loro capacità di rendere tangibile l'invisibile. È il trionfo dell'illusione artigianale, un'epoca in cui gli effetti speciali non dipendevano dalla computer grafica ma dall'ingegno umano, dalla paziente costruzione di atmosfere attraverso specchi, fumi, prospettive forzate e un uso sapiente delle lenti. Si narra che Cocteau, per ottenere l'effetto di Belle che scivola eterea nei corridoi, usasse carrelli a rotelle e un'illuminazione diffusa che quasi la sospendeva nell'aria, conferendole una grazia ultraterrena, una soluzione che ricorda la fluttuazione degli spiriti nei suoi successivi film della Trilogia Orfica. Questo meticoloso lavoro artigianale non è un semplice orpello stilistico, ma il veicolo attraverso cui il film trascende il racconto fiabesco per diventare un'esplorazione profonda della bellezza, della mostruosità e della loro inscindibile relazione.
Un’opera sospesa tra sogno e incanto, un caposaldo della settima arte. La sua influenza è palpabile non solo nel cinema fantastico a venire, ma in ogni espressione artistica che osi sfidare i confini del reale per esplorare le verità più intime dell'esistenza umana. Da Guillermo del Toro, che ha citato Cocteau come fonte d'ispirazione per il suo approccio fiabesco, fino a registi contemporanei che cercano un'estetica visiva che sia essa stessa narrazione, "La Bella e la Bestia" di Cocteau rimane un faro. È un film che continua a incantare e a far riflettere sulla natura della bellezza, sulla potenza redentrice dell'amore e sulla capacità dell'arte di creare mondi che, pur non essendo reali, sono più veri del vero. La sua risonanza è eterna, un monito sublime a guardare sempre oltre il velo delle apparenze.
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