Ben Hur
1959
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Regista
Il primo grande kolossal della storia di Hollywood nasce per mano di un regista ambizioso come Wyler e di un sottile lavoro drammaturgico operato sul romanzo di Wallace da parte di Turnberg. William Wyler, cineasta dal tocco raffinato, noto per la sua meticolosa attenzione ai personaggi anche nelle ambientazioni più grandiose, come dimostrato in capolavori quali I migliori anni della nostra vita, si trovò di fronte alla sfida non solo di dirigere un’impresa di proporzioni bibliche, ma di infondere umanità e spessore psicologico in un genere che fino ad allora aveva spesso privilegiato la magniloquenza a discapre della profondità. Il “sottile lavoro” di Karl Tunberg consistette nel distillare l’epopea verbosa e palesemente evangelica di Lew Wallace, epurandola dagli eccessi didascalici per forgiarne una sceneggiatura che sapesse parlare a un pubblico universale, bilanciando la sacralità del testo originale con le esigenze narrative e spettacolari del grande schermo del Novecento. Fu un’operazione di equilibro delicatissimo, mirato a trasformare una parabola religiosa in una saga umana avvincente, strategica anche in un’epoca in cui Hollywood cercava di contrastare l’ascesa della televisione con spettacoli di dimensioni e sfarzo ineguagliabili.
Con questi semplici ma efficaci ingredienti prese vita un’operazione davvero titanica, da cui le tre ore e mezza della durata del film che riflettono le dimensioni della produzione. Parliamo di cifre astronomiche per l'epoca: un budget di quindici milioni di dollari, impiegando decine di migliaia di comparse, ricostruendo il Circo Massimo su una superficie di diciotto acri con un'autenticità mozzafiato, e gestendo migliaia di cavalli, carri e costumi. Questa non fu solo una prova di forza logistica, ma un atto di fede nell'arte cinematografica come esperienza immersiva totale, capace di trasportare lo spettatore indietro nel tempo, in un mondo ricreato con un lusso di dettagli maniacale. La scelta del formato widescreen, spesso Cineama, era intrinseca a questa visione, espandendo l'orizzonte narrativo ben oltre la cornice del piccolo schermo domestico.
La storia è quella di un nobile principe giudeo, Ben Hur, ingiustamente accusato da un amico d’infanzia, ora tribuno romano e amministratore della sua regione. La dinamica tra Giuda Ben-Hur e Messala non è una mera rivalità di circostanza, ma una collisione ideologica e spirituale che risuona attraverso i secoli. Messala, incarnazione della pragmatica e spesso brutale efficienza dell’Impero Romano, seduce con la promessa di potere e ordine, contrapponendosi alla fede salda e all’identità millenaria del popolo ebraico che Ben-Hur rappresenta. La loro amicizia, purissima in gioventù, si corrompe sotto il peso di doveri e ideologie inconciliabili, rendendo lo scontro finale non solo una questione di vendetta personale, ma il simbolo di un conflitto di civiltà, di una lotta tra l'oppressione e la libertà, tra la fede e il cinismo.
Ben Hur verrà ridotto in schiavitù e inizierà le sue peripezie intorno al primo mondo cristiano (siamo nel 29 d.c.) per ritornare, in una sorta di nastro di Moebius, al punto di partenza, per ottenere la sua vendetta. Questo percorso non è un semplice viaggio fisico, ma una profonda odissea spirituale. La schiavitù, le galee, l'incontro con lo sceicco Ilderim e le corse dei carri, sono tappe di una trasformazione interiore, un lento ma inesorabile distacco dalla sete di vendetta per abbracciare un concetto più elevato di giustizia e, infine, di perdono. L'anno 29 d.C. non è un dettaglio casuale; posiziona la vicenda in un momento cruciale della storia umana, l'alba del cristianesimo, permettendo alla figura di Cristo di permeare la narrazione con la sua presenza sottile ma onnipresente, offrendo una via di salvezza non attraverso il potere terreno, ma attraverso la redenzione spirituale.
Si sono spese molte parole su questo film, un concetto su tutti vale la pena circoscrivere: viene ridefinita la dimensione di “epico”. Ben Hur non si limita alla spettacolarità grandiosa, pur essendone un maestro insuperato; esso eleva il genere a un nuovo standard, combinando la grandezza della scenografia e delle scene di massa con una narrazione intimista e una profonda indagine psicologica dei personaggi. Laddove epici precedenti, come le produzioni di Cecil B. DeMille, spesso privilegiavano il didascalismo biblico e la messa in scena sontuosa, Ben Hur infuse autentica complessità emotiva e un arco di trasformazione dei personaggi che lo rese non solo un’esperienza visiva, ma anche un viaggio emotivo. Ha stabilito un archetipo per i futuri kolossal, influenzando opere che vanno da Lawrence d'Arabia a Il Gladiatore, dimostrando che l'epico poteva essere tanto intimo quanto monumentale.
Ben Hur è prima di tutto una storia avvincente che diviene saga passando in rassegna i punti cardine del suo tempo: prima evangelizzazione del Cristo, oppressione politica romana, decadenza e corruzione di Roma, nobiltà d’animo degli strati più umili della popolazione. La "prima evangelizzazione" non è presentata in modo esplicito o didascalico, ma si manifesta attraverso la presenza compassionevole e misteriosa del Cristo, la cui lezione di amore e perdono si contrappone alla logica brutale e vendicativa di Roma. L'oppressione romana non è solo un elemento di trama, ma un personaggio a sé, un'entità onnipresente che modella il destino dei popoli conquistati, mettendo in luce la sua spietata efficienza e, al contempo, la sua intrinseca fragilità morale. La decadenza e la corruzione di Roma sono delineate attraverso l'opulenza sfrenata e la crudeltà dei suoi rappresentanti, il contrasto stridente con la dignità e la fede incrollabile degli "strati più umili", che nel film spesso incarnano la vera nobiltà d'animo, una forza silenziosa ma inarrestabile. Questo intricato dialogo tra le forze macro-storiche e le micro-storie individuali conferisce al film un peso specifico che lo eleva al di là del mero intrattenimento.
Un film che è prima di tutto catarsi, purificazione, distacco dal frastuono del moderno, poi entra in gioco la spettacolarizzazione della lotta, l’esaltazione dell’eroe, la volontà titanica che vince su tutto. La catarsi, nel senso aristotelico, è il punto d’arrivo di questo viaggio: la purificazione dalle passioni distruttive, la liberazione attraverso la sofferenza e la fede. Il "distacco dal frastuono del moderno" è un invito a riscoprire archetipi narrativi universali, le grandi domande sull'esistenza, sulla giustizia e sul destino, che trovano eco in ogni epoca. La "spettacolarizzazione della lotta", culminata nell’indimenticabile corsa delle bighe, non è solo un virtuosismo tecnico (e lo è, in modo sbalorditivo, ancora oggi), ma il climax emotivo e simbolico del film. È un balletto di forza bruta, strategia e pura volontà, in cui la vendetta personale di Ben-Hur si fonde con la sua ricerca di riscatto, diventando l’espressione massima della sua "volontà titanica" di superare le avversità. La vittoria non è solo fisica, ma morale, un trionfo dello spirito sull'odio. Questo capolavoro non solo dominò la notte degli Oscar del 1960 con un record di undici statuette, ma cementò la sua posizione nella storia del cinema come un monumento all'epica classica e all'abilità di Hollywood di creare sogni su scala inimmaginabile, un'opera che continua a risuonare per la sua potenza narrativa e il suo messaggio eterno.
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