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Narciso Nero

1947

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Un’opera cardinale per il dopoguerra hollywoodiano, perché ebbe il merito di inaugurare un filone mistico speculativo fino a quel momento bellamente ignorato, La premiata coppia Powell – Pressburger dimostra ancora una volta che il cinema può e deve far riflettere lo spettatore, coinvolgendolo e commuovendolo. In un panorama cinematografico ancora in gran parte ancorato a narrazioni più convenzionali, The Archers – come amavano firmarsi Michael Powell e Emeric Pressburger – si distinsero per un’audacia estetica e tematica che li pose su un piano quasi metafisico. La loro visione non si limitava alla semplice narrazione, ma aspirava a esplorare l’animo umano nelle sue pieghe più recondite, spesso attraverso un uso rivoluzionario del Technicolor, trasformato da mero strumento di resa cromatica in veicolo di espressione psicologica ed emotiva. "Narciso Nero", in particolare, emerge come un faro in questa ricerca, osando addentrarsi nelle profondità della spiritualità femminile e nelle sue fragilità intrinseche, un tema raramente esplorato con tale acume e intensità visiva.

La storia è quella di un gruppo di cinque suore, di stanza a Calcutta, che decidono di stabilire una comunità religiosa nell’impervia regione dell’Himalaya. Guidate dalla giovane e determinata Suor Clodagh, interpretata con sublime contenzione da Deborah Kerr, le religiose intraprendono una missione che si rivelerà ben presto un viaggio non solo geografico ma soprattutto interiore, verso gli abissi della psiche. L’isolamento vertiginoso della montagna, con le sue vette maestose e i suoi precipizi minacciosi, diventa un potente simbolo dell’alterità e dell’assoluto, un luogo di sublime bellezza che cela però un potere perturbante.

Per farlo si stabiliscono in un antico palazzo che fu un harem. Questa scelta di location non è affatto casuale, ma un colpo di genio narrativo e visivo. Il Mopu, come è chiamato questo eremo, è una fortezza che risuona ancora della sensualità e della mondanità del suo passato. Le pareti ornate di affreschi erotici, le stanze riscaldate dal ricordo di danze e piaceri, l’eco di un lussuoso oblio, si contrappongono con violenza simbolica all’austerità delle celle monacali e alle rigide vesti delle suore. È l’incarnazione fisica di tutto ciò che la vita monastica si propone di reprimere: il desiderio, la vanità, la passione. Questa frizione tra sacro e profano, tra vocazione e carne, tra spirituale e corporeo, diviene il vero motore drammatico del film.

Quelle ataviche mure risveglieranno in loro demoni sopiti e ancestrali dubbi. Il vento incessante che sferza le vette himalayane e si insinua nelle fessure del palazzo diventa quasi una personificazione di queste forze irrazionali, un suono costante che mina la serenità e la disciplina. Ogni suora affronta la propria crisi personale, ma è la disintegrazione psicologica di Suor Ruth, splendidamente interpretata da Kathleen Byron, a catturare l’attenzione con una ferocia quasi operistica. La sua gelosia repressa, la sua nevrosi strisciante e infine la sua follia manifesta si manifestano in una metamorfosi fisica e psicologica agghiacciante, trasformandola da devota serva di Dio in una figura diabolica, quasi un doppio malvagio di Suor Clodagh. Ma anche in Suor Clodagh, le memorie di un amore passato e la vanità della giovinezza riaffiorano con forza, scuotendo le fondamenta della sua fede e del suo ruolo di guida. Il palazzo stesso, con il suo glorioso e sensuale passato, agisce come un catalizzatore, un incubatore per queste pulsioni primordiali che la disciplina monastica aveva solo apparentemente sopito. Il "narciso nero" del titolo allude non solo a una bellezza esotica e letale, ma anche alla perversione narcisistica che può derivare da un isolamento forzato e da una repressione autoimposta, dove il confronto con il proprio io più profondo e inconfessabile diventa inevitabile e distruttivo.

Un’opera davvero splendida nella sua rincorsa forsennata al lato più umano del misticismo religioso e alla sua graduale corruttibilità. Il film non giudica la fede, ma indaga la sua fragilità quando viene sottoposta a pressioni estreme, quando l’ambiente esterno si fa specchio delle tempeste interiori. È un’analisi sottile e impietosa della repressione dei sensi e dei pericoli che ne derivano, mostrando come la natura umana, con le sue pulsioni e le sue debolezze, sia un fiume carsico che prima o poi riemerge, a volte con violenza inaudita. Il crollo dell’ordine e della disciplina, sia a livello individuale che comunitario, è rappresentato con un crescendo drammatico che rasenta il gotico psicologico, ricordando per certi versi l’isolamento claustrofobico e la degenerazione mentale di opere come "Repulsione" di Polanski, sebbene in un contesto di aspirazione spirituale anziché di pura patologia. Il colonialismo britannico, pur non essendo il tema centrale, è un sottofondo inquietante: l’idea di imporre una fede e una cultura estranee a un luogo così intrinsecamente selvaggio e antico si rivela una presunzione fatale.

Un film che centellina metafore spirituali mutandole in fredda materia. È qui che la maestria tecnica di Powell e Pressburger, coadiuvati dalla fotografia magistrale di Jack Cardiff, raggiunge il suo apice. Ogni fotogramma di "Narciso Nero" è una composizione pittorica, un trionfo del Technicolor usato non per mera ostentazione ma per creare un universo visivo che riflette e amplifica lo stato d’animo dei personaggi. I rossi intensi delle vesti locali e dei tramonti sanguigni si scontrano con i bianchi e i blu glaciali degli abiti monacali e dei paesaggi montani, creando un contrasto cromatico che è esso stesso un’espressione del conflitto interno. La scelta audace di girare quasi interamente in studio (Pinewood Studios), ricreando l’Himalaya con matte painting di sorprendente realismo e dettagliate scenografie, conferisce al film un’atmosfera onirica, quasi di incubo, che rende ancora più palpabile la dimensione psicologica della storia. Non è la realtà a corrompere le suore, ma la proiezione dei loro stessi desideri e paure su uno sfondo artificioso e sublime. Le inquadrature, spesso oblique o da angolazioni inusuali, e l’uso espressionista delle luci e delle ombre, trasformano il palazzo in un labirinto mentale, un palcoscenico per la tragedia che si consuma. Il film diventa così un’allegoria visiva della lotta eterna tra l’anima e il corpo, un’opera d’arte che, attraverso la sua straordinaria fisicità visiva, sonda le profondità più estreme della condizione umana, lasciando un’impronta indelebile nella storia del cinema.

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