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Velluto Blu

1986

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Il ritrovamento di un orecchio umano da parte di uno studente in un campo vicino a casa dà inizio ad un’inquietante vicenda dai forti sapori simbolici. Non un mero pretesto narrativo, bensì un vero e proprio organo sensoriale che funge da portale verso un mondo nascosto, un varco verso l'indicibile che si annida sotto la superficie levigata della provincia americana. Questo frammento biologico, pulsante di mistero, diventa immediatamente una metafora del voyeurismo, dell'ascolto proibito, dell'immersione forzata in una realtà altrimenti celata, un occhio invisibile, o meglio, un orecchio, che trascina lo spettatore e il protagonista, Jeffrey, in un abisso di perversione e bellezza grottesca.

L’orecchio come metafora dell’esperienza uditiva è il tema con cui Lynch giocherà per tutto il film ad iniziare dalla canzone “Blue Velvet” di Bobby Vinton, un inno all'amore sdolcinato e nostalgico che viene pervertito e distorto in un mantra di terrore e sottomissione. La colonna sonora, firmata dal fido Angelo Badalamenti, è una sinfonia di contrasti: le melodie suadenti e malinconiche si scontrano con gli angoscianti rumori di fondo che qua e là screziano il film di un’atmosfera asfittica e brulicante. Sono ronzii indistinti, cigolii metallici, risate stridule e sussurri minacciosi che emergono dal profondo, creando una claustrofobia uditiva che è tanto psicologica quanto fisica, per finire alla suadente e sensuale voce della protagonista che come una sottile malìa esercita un fascino ineludibile per chi l’ascolta, un richiamo sirenico che promette perdizione e rivelazione. Lynch eleva il sound design a co-protagonista, trasformando il silenzio in minaccia e il frastuono in confessione, dipingendo un quadro sonoro che è tanto vivido e perturbante quanto le immagini.

L’indagine sull’orecchio mozzato porta Jeffrey a casa di Dorothy Vallens, maliarda cantante di Night Club. È l'archetipo della femme fatale lynchiana, fragile e indomita, vittima e carnefice della propria, inestricabile, rete di pulsioni. Jeffrey, giovane e apparentemente innocente studente, viene irretito non solo dal mistero ma da un irresistibile fascino per l'oscuro, una latente curiosità che lo spinge a varcare la soglia dell'ordinario, spogliandosi gradualmente della sua ingenuità borghese. La sua discesa non è passiva, ma una scelta, quasi un'iniziazione ai lati più reconditi e perversi dell'esistenza.

Sarà coinvolto suo malgrado in una storia dai contorni grotteschi dove realtà e finzione sono avvinte nel medesimo territorio inesplorato. Il confine si dissolve, e ciò che appare come una pacifica cittadina di provincia – Lumberton, North Carolina – si rivela un inferno borghese, un incubo a occhi aperti dove il velo di perbenismo viene strappato via per rivelare le pulsioni primordiali che ribollono sotto. La narrazione di Lynch non segue la logica lineare del thriller classico, ma si muove per associazioni, incubi e risvegli, immergendo lo spettatore in una dimensione onirica che è la vera protagonista.

David Lynch inquieto e conturbante si spinge nel reticolo underground che scorre come una linfa sotterranea sotto la città, intorno a noi. È il reame dell'inconscio collettivo, il regno freudiano dell'Es, dove le pulsioni più oscure e i desideri repressi trovano sfogo. Questa discesa nell'abiezione è una costante nella filmografia lynchiana, da Eraserhead a Twin Peaks, da Strade Perdute a Mulholland Drive, dove la facciata della rassicurante Americana viene sistematicamente lacerata per mostrare il marciume e la violenza che la permeano. È una critica sottile ma feroce alla retorica reaganiana degli anni '80, all'illusione di una società pura e irreprensibile, rivelandone le ipocrisie e le violenze celate.

Una zona invisibile dove avvengono fatti che sembrano vivere di una vita parallela e inconoscibile rispetto al mondo esterno. Qui, la ragione cede il passo all'istinto, la morale si piega alla perversione, e l'innocenza si scontra violentemente con la corruzione, lasciando cicatrici indelebili. Ne nasce un’opera oscura che parte dalla luce della superficie, quella dei cieli azzurri e dei giardini fioriti, per raggiungere i più tenebrosi recessi dell’animo umano, rivelando una dualità intrinseca che è al cuore della condizione umana: la tensione ininterrotta tra il desiderio di ordine e la seduzione del caos.

Un ricordo grato al compianto Denis Hopper qui coinvolto in una parte davvero sinistra, nei panni di un losco e violento figuro che comparirà più volte nell’intreccio: un’interpretazione di mestiere, che da lustro all’intera opera. Frank Booth non è solo un villain, è una forza della natura, un'incarnazione pura del male primordiale. Con la sua bombola d'ossigeno che simula una rinascita perversa, il suo linguaggio scurrile e ossessivo ("Daddy", "Mommy"), e la sua sete insaziabile di potere e distruzione, Hopper crea un personaggio iconico, un'entità che pulsa di terrore e attrazione repulsiva. La sua performance non è mera recitazione, ma un'immedesimazione totale che trasuda follia e sadismo, definendo lo standard per i futuri antagonisti lynchiani.

Tutto l’impianto fotografico del film è finalizzato ad ottenere un effetto onirico alimentando un’atmosfera perennemente incerta, balbettante, sfocata. La palette cromatica, in particolare, è usata con maestria: il blu velluto del titolo, che evoca l'oscurità della notte e il mistero dell'inconscio, si contrappone al rosso vivido, il colore della passione, del sangue e del pericolo. Lynch e il direttore della fotografia Frederick Elmes giocano con luci e ombre, creando un chiaroscuro che non solo definisce lo spazio, ma anche lo stato psicologico dei personaggi, avvolgendoli in un'aura di suspense e ambiguità che rende ogni inquadratura un'opera d'arte pittorica. L'estetica è influenzata tanto dal cinema noir classico quanto dalla pittura surrealista, con immagini che fluttuano tra la realtà e un sogno disturbato.

Scena meravigliosa quella in cui Jeffrey, nascosto in un armadio, spia il rientro a casa di Dorothy subendone il fascino sinistramente erotico e finendo per essere scoperto dalla donna. È il culmine del suo viaggio voyeuristico, un punto di non ritorno dove l'osservatore diviene parte dell'orrore che osserva. Brandendo un coltello Dorothy sparge su di lui la sua morbida sensualità irretendolo in un gioco in bilico tra Eros e Thanatos, tra nivea pelle e sangue scarlatto. Qui, il bianco immacolato della carne incontra il rosso della violenza e del desiderio proibito, in un'orgia di simboli che esplora i confini più oscuri della sessualità e del trauma. La scena non è solo un momento di suspense o erotismo disturbante, ma una profonda analisi delle pulsioni umane, del potere della seduzione e della violenza intrinseca che può celarsi dietro la superficie più morbida. Jeffrey non è solo una vittima, ma un partecipante attivo, affascinato e spaventato, che scopre la propria capacità di indulgere nell'oscuro, uscendo trasformato da questa immersione nella perversione. Velluto Blu rimane un capolavoro inquietante e ipnotico, una discesa nell'abisso dell'anima che non smette di turbare e affascinare, solidificando il posto di David Lynch come uno dei più grandi visionari del cinema moderno.

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