Gangster Story
1967
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Regista
Un film che riscosse un successo talmente clamoroso da trascendere il mero fenomeno cinematografico e diventare un vero e proprio sismografo culturale, le cui vibrazioni finirono per influenzare profondamente i tardi anni ’60. Il suo impatto fu capillare, manifestandosi in dettagli apparentemente futili, ma rivelatori, come la moda che rinverdì i fasti degli anni ’30 – un anacronismo stilistico che, lungi dall’essere una semplice rievocazione nostalgica, si configurava come un atto di sofisticata ribellione estetica, un saggio sulla ciclicità delle forme e sulla loro capacità di assumere nuovi significati in contesti mutati. Il taglio di capelli della Dunaway, poi, divenne un archetipo di stile, spopolando per anni tra le signore e consacrando la sua interprete a icona di un’epoca in fermento. Tutto questo, e molto altro, fu reso possibile dalla fulgida intuizione di Arthur Penn e dal suo epocale Bonnie and Clyde, un’opera che non solo ridefinì il genere gangsteristico, ma che anticipò e modellò l’intera estetica della New Hollywood, infrangendo convenzioni narrative e visive che sembravano inossidabili.
Lungi dal ripiegarsi sulla brutalità stilizzata o sulla cupa fatalità che caratterizzava la violenza dei gangster movies di maniera, Bonnie and Clyde opera una deviazione radicale, rifocalizzando il proprio messaggio sulle sfaccettate personalità dei due protagonisti. Non sono meri archetipi criminali, ma figure vibranti, animate da uno spirito ilare e un’ironia spesso disarmante, la cui stessa esistenza si traduce in un manifesto di anticonformismo. La loro è una ragione di vita intrinsecamente sovversiva: una distruzione delle convenzioni borghesi che si manifesta attraverso una condotta anarchica e libertaria, priva di ipocrisie e mossa da un desiderio primordiale di evasione e di affermazione. In un’America ancora divisa tra il puritanesimo e le promesse di una libertà appena accennata, la loro ribellione non è solo un atto criminale, ma una performativa contestazione sociale, un grido di liberazione dalle gabbie di un conformismo asfissiante. La violenza stessa, pur non edulcorata, assume talvolta una connotazione quasi ludica, un balletto macabro che, proprio nella sua disinvoltura, diviene ancora più perturbante e innovativo per l'epoca.
La storia, pur affondando le radici nella cronaca nera della Grande Depressione, si eleva a mito, raccontando le imprese di un piccolo balordo, Clyde Barrow, appena uscito di prigione, e di una cameriera, Bonnie Parker, incontrata per caso a Dallas. Da questo incontro fortuito scaturisce un’attrazione irresistibile, una scintilla che accende una deflagrazione emotiva e criminale. Bonnie, una poetessa in erba intrappolata nella quotidianità asfissiante, riconosce in Clyde quello spirito avventuroso e indomito che per tutta la vita aveva cercato, la chiave per evadere dalla mediocrità; Clyde, d’altro canto, scopre in Bonnie non solo un’amante, ma una complice intellettuale, una donna dotata di un’ironia affilata e una spumeggiante ilarità che stempera la sua stessa, latente, malinconia. La loro unione va oltre la passione carnale, spesso suggerita e poi negata dal tormentato non detto, trasformandosi in una simbiosi perfetta, una partnership criminale che li vede complici nell’esecuzione di rapine disseminate in diversi Stati. Non sono soli a lungo: la loro carismatica audacia attira una variopinta galleria di complici – figure marginali incontrate per la via o vecchi amici di Clyde – che si aggregano per formare una sorta di disfunzionale eppure indissolubile famiglia allargata, legata non da vincoli di sangue ma da un patto di ribellione contro il sistema. Questo nucleo errante, una vera e propria comune anarchica ante-litteram, diviene il cuore pulsante del film, offrendo squarci sulla lealtà e la tenerezza che possono fiorire anche nel deserto della violenza.
Con una progressione inarrestabile, alimentata anche dalla fascinazione mediatica che le loro gesta suscitavano nell’opinione pubblica, Bonnie e Clyde in poco tempo divennero la più famosa, e controversa, banda criminale degli Stati Uniti. La loro parabola di sangue, intrisa di rapine audaci e fughe rocambolesche, è seguita per mezza America dall’occhio vigile e sorprendentemente empatico del regista. Arthur Penn non si limita a registrarne le imprese; egli scava a fondo, con una lucidità rara, nel loro universo interiore, mettendone in luce le contraddizioni più laceranti e le virtù più inattese. La sua è una poetica scevra da ogni giudizio morale preconfezionato, un approccio che scardina le consuete categorie di "buono" e "cattivo" per esplorare la complessità dell'animo umano calato in circostanze estreme. Non c'è condanna esplicita né santificazione: c'è l'osservazione acuta di individui che agiscono secondo una logica interna, per quanto deviata, spinti da un mix di disperazione, audacia, e un’inarrestabile sete di vita. Questo sguardo ambiguo e profondamente umano, che non si sottrae a mostrare la brutalità delle loro azioni ma al contempo ci invita a empatizzare con la loro fragilità, è la vera cifra stilistica di Penn, un lascito che permise al cinema americano di maturare, abbandonando l’innocenza posticcia per abbracciare la complessità della realtà.
Il risultato è un’opera spumeggiante, permeata da una vitalità contagiosa che maschera, e al contempo enfatizza, la sua intrinseca tragicità. La sceneggiatura, firmata da David Newman e Robert Benton, è un capolavoro di equilibrio, intessuta di dialoghi brillanti e situazioni che virano dal farsesco al tragico con disinvoltura sconcertante, costruendo un’architettura narrativa in cui ogni sequenza, ogni battuta, risuona con intelligenza e precisione. Ma è la regia di Arthur Penn a elevare Bonnie and Clyde oltre la somma delle sue pur eccellenti parti. Una regia mai compiaciuta, mai ridondante, che rifugge ogni barocchismo fine a se stesso per concentrarsi sulla forza espressiva dell’immagine e del montaggio. L’influenza della Nouvelle Vague è palpabile nei suoi jump cuts audaci, nella sua capacità di catturare momenti di autentica spontaneità, nella sua predilezione per i primi piani che scavano l’anima dei personaggi. Il culmine di questa maestria è l’epica e straziante sequenza finale, una vera e propria sinfonia di violenza coreografata al rallentatore, dove il piombo si fa pittura e la morte un balletto macabro e indimenticabile. Quella scena non fu solo un tour de force tecnico – girata con diverse cineprese per catturare ogni angolazione dell’ineluttabile massacro – ma una dichiarazione d’intenti artistica, un pugno nello stomaco per gli spettatori abituati a finali più edulcorati. Penn non si limita a mostrarci la fine dei due amanti-criminali; ce la fa sentire in ogni fibra, trasformando la loro brutale esecuzione in un’esperienza sensoriale che rimane impressa a lungo, un monumento al genio di un regista che ha saputo infondere poesia nella violenza e tragedia nell’avventura, lasciando un’impronta indelebile nella storia del cinema.
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