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Boyhood

2014

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Un progetto originale ed ambizioso, qualcosa di realmente nuovo all’interno del tumultuoso dominio cinematografico: Boyhood è il tentativo estremo di raccontare una storia che progredisce nel tempo senza usare trucchi ma impiegando gli stessi attori del cast a distanza di anni. L'audacia di un'impresa così monumentale – le riprese si sono estese per oltre un decennio, un periodo in cui intere carriere cinematografiche nascono e tramontano – non risiede solo nella sua logistica senza precedenti, ma nella sua intrinseca fiducia nella potenza evocativa del fluire autentico della vita. È un atto di fede nel cinema come specchio del tempo vissuto.

Il loro cambiamento nel corso del tempo diviene in un certo senso la storia, in una sorta di esperimento sociologico che sfida le convenzioni narrative e produttive. Si assiste alla metamorfosi non solo dei personaggi ma degli individui stessi che li incarnano, una rara sovrapposizione tra finzione e realtà biologica che conferisce all'opera una risonanza quasi documentaristica. L'invecchiamento, l'irrigidimento delle fattezze, l'evoluzione delle posture e degli sguardi, sono parte integrante della trama, un linguaggio non verbale che comunica il peso degli anni in modo più eloquente di qualsiasi sceneggiatura.

La vita e la fisionomia di chi recita si riverbera nella narrazione e diviene parte integrante del tessuto semantico dell’opera configurandosi come un affresco dalla vividezza impressionante sugli ultimi dodici anni di storia americana attraverso il filtro narrativo di una famiglia della middle class. Questo non è un affresco grandioso di eventi storici eclatanti, bensì una cronaca intima, sussurrata, degli influssi sottili che la cultura, la politica e le dinamiche sociali esercitano sul quotidiano. Si percepisce l'eco delle ere presidenziali che si succedono, l'ombra della crisi economica che sfiora le famiglie, l'inarrestabile avanzata della tecnologia che ridefinisce le interazioni umane, il tutto distillato nelle piccole rivelazioni di una famiglia come tante, colta nella sua ordinaria straordinarietà.

Ma l’espediente temporale con cui Richard Linklater ha voluto costruire la sua opera non è l’unica ragione che rende Boyhood così speciale. Lungi dall'essere un mero espediente o un virtuosismo tecnico, la dimensione temporale si fonde con la visione artistica del regista, trasformandosi in una componente organica del racconto. Linklater, un autore da sempre affascinato dal tempo, dalla sua percezione e dal suo trascorrere – come dimostrato dalla sua trilogia "Before" (Before Sunrise, Before Sunset, Before Midnight), dove gli stessi attori tornano a distanza di nove anni per esplorare l'evolversi di una relazione – qui eleva il concetto a un livello ulteriore, facendone il vero protagonista silenzioso del dramma. La sua regia si distingue per un naturalismo quasi zen, che evita il melodramma a favore di una profonda osservazione del banale, del non detto, delle pause che scandiscono l'esistenza.

L’epopea di questa famiglia è appassionante: i momenti di gioia, le piccole sconfitte, le grandi tappe della vita, il grande dramma della separazione, tutto questo fluisce senza enfasi trascinando lo spettatore all’interno del microcosmo famigliare, rendendolo parte integrante di quella piccola monade. È una narrazione che rifugge l'artificio delle trame hollywoodiane, preferendo un andamento picaresco, quasi proustiano, in cui l'importanza degli eventi non è data dalla loro spettacolarità ma dalla loro incidenza sulla formazione dell'individuo. Non ci sono colpi di scena clamorosi, solo la paziente e inesorabile rivelazione di ciò che significa crescere e invecchiare in un mondo in costante mutamento.

La narrazione segue la vita del piccolo Mason, da 6 anni a 18 anni. Nell’arco di questo lasso di tempo fluisce la storia della sua famiglia: il fallimento del matrimonio dei suoi genitori, i tentativi sempre frustrati della madre di rifarsi una famiglia, il rapporto conflittuale col padre, i problemi adolescenziali, il rapporto difficile con la sorella, l’approdo al college, l’amore giovanile. La performance di Ellar Coltrane, che interpreta Mason, è una lezione di recitazione non recitata, una crescita autentica che lo spettatore ha il privilegio di testimoniare. Accanto a lui, le trasformazioni di Patricia Arquette e Ethan Hawke, nei ruoli dei genitori, sono altrettanto toccanti: vediamo le loro speranze, le loro delusioni, le loro fragilità e le loro rinascite riflesse nei volti segnati dagli anni e dalle esperienze. L'evoluzione dei loro personaggi, in particolare quello della madre, Olivia, che persegue incessantemente la stabilità e l'educazione nonostante le battute d'arresto, è di per sé un romanzo di formazione parallelo, un tributo alla resilienza e alla determinazione.

Una vita al microscopio, un romanzo di formazione che rende Mason una creatura plasmata dagli avvenimenti della sua storia. È una Bildungsroman nel senso più puro, un percorso di crescita che non si conclude con una rivelazione epifanica, ma con la consapevolezza che la vita è un perpetuo divenire, un'accumulazione di momenti, dialoghi e percezioni. L'identità di Mason non è un punto di arrivo, ma un'entità fluida, in costante negoziazione con il mondo circostante e con il proprio sé interiore.

Un racconto durato dodici anni filmato con afflato poetico e grande amore per i personaggi. Ogni membro della famiglia è infatti campito con forza introspettiva e con delicata tensione dialettica. Linklater non giudica, ma osserva con un'empatia disarmante, concedendo a ciascuno spazio e dignità. I dialoghi risultano naturali e fluidi, parte integrante del narrato, spesso intrisi di quella saggezza spicciola o di quel disorientamento esistenziale tipico della gioventù e dell'età adulta, che rimanda al verismo di certa letteratura americana e al cinema indipendente più autentico. Si avverte la cura artigianale nella stesura di ogni scambio verbale, eppure il risultato è un'organicità che suggerisce l'improvvisazione, la spontaneità.

Boyhood è l’estremo atto di amore di Linklater per il cinema, il poetico tentativo di fermare gli atti salienti della costituzione di un uomo davanti ad una cinepresa. È una riflessione sulla memoria, sul passare del tempo e sulla fragilità dell'esistenza, un'opera che, pur nella sua singolarità produttiva, si connette a una tradizione cinematografica che cerca di catturare la vita nella sua forma più grezza e autentica, da Truffaut con il suo Antoine Doinel a una certa scuola neorealista che valorizzava l'attore non professionista. Il risultato è un’opera che usando il Tempo come variabile principale commuove, avvince ed emoziona: esattamente come la storia che ognuno di noi si porta impressa nella propria essenza di uomo, un viaggio ininterrotto di scoperte, perdite e rinascite.

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