Brazil
1985
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Regista
Opera visionaria dove probabilmente si vede all’opera il miglior Terry Gilliam, al culmine della sua peculiare estetica, che dirige con un talento onirico e inconfondibilmente surreale una vicenda in bilico tra la claustrofobia kafkiana e la distopia orwelliana. Non si tratta solo di una lotta archetipica di un umile impiegato contro il colossale sistema burocratico che sottende ai destini umani e ne governa le vite, i pensieri, le volontà, ma di un’immersione in un incubo a occhi aperti dove l’assurdo diventa la norma, e ogni tentativo di fuga si scontra con l'inevitabile logica contorta del potere. Gilliam, con la sua ineguagliabile abilità di architetto di mondi, costruisce una metropoli retro-futuristica, un labirinto di condotti d'aria e architetture imponenti e fatiscenti, che è essa stessa un personaggio, oppressivo e soffocante, un contraltare sporco e iper-tecnologico all'utopia asettica di altre distopie cinematografiche.
Nel cast, tra le molteplici e indovinate scelte, spicca un sorprendente Robert De Niro, quasi una silhouette spettrale, difficilmente individuabile nel ruolo di un idraulico dissidente e capo della Resistenza anti-sistema. La sua apparizione è un fulmine a ciel sereno, un’incarnazione della ribellione spontanea che si manifesta attraverso l’efficienza manuale contro la cieca inefficienza burocratica, conferendo al film un tocco di inaspettata imprevedibilità e aggiungendo un peso specifico notevole a un cast già stellare, che include l’eccellente Jonathan Pryce nel ruolo del protagonista Sam Lowry.
Sam Lowry è, inizialmente, l'archetipo dell'uomo comune schiacciato, un ingranaggio riluttante dell’imponente Ministero dell’Informazione, un ufficio che evoca il panopticon foucaultiano per la sua onnipresenza, sebbene sia strangolato dalla propria inefficienza e da protocolli ridondanti. La sua unica via di fuga sono i sogni vividi, quasi psicanalitici, in cui si libra con ali di Angelo, figura eroica e messianica, per raggiungere una fanciulla, la personificazione della libertà e dell'amore che gli è negato. La realtà purtroppo è ben più amara: egli è disperso nelle spire viscide di una tentacolare istituzione che si nutre di sé stessa, e al contempo è pressato da una madre arpia, Ida, magnificamente interpretata da Katherine Helmond, schiava della chirurgia estetica, simbolo di una società ossessionata dall'apparenza e dalla negazione della caducità. Sam si ritrova così prigioniero non solo di un Sistema asfittico e opprimente, ma anche delle convenzioni sociali e familiari che ne castrano ogni slancio vitale, rendendolo una vittima predestinata di un mondo che ha smarrito ogni traccia di autenticità.
La miccia della narrazione viene innescata da un errore burocratico di sconcertante banalità: il suo ufficio spicca un mandato di arresto per Archibanld Buttle al posto di Archibald Tuttle, l'elusivo idraulico ribelle in lotta contro il Sistema. Un refuso, una svista insignificante per le logiche del potere, ma devastante per la vita di un innocente. Mentre il povero Buttle sarà prelevato dalla polizia in una scena di terrificante efficienza brutale e quasi comica nella sua assurdità, Sam si attiverà, inizialmente con riluttanza, per correggere l’errore, mosso più da un fastidio personale per l’irregolarità che da un vero slancio empatico, fino ad entrare in contatto con la Resistenza e, infine, con il famigerato Tuttle stesso. Ciò che appare per lui occasione di una redenzione inaspettata, una fuga dalla sua esistenza grigia e preordinata, si rivelerà invece un percorso tortuoso che lo condurrà attraverso le illusioni e le amare verità di una libertà sempre più sfuggente, culminando in un'ambigua e tragica epifania.
Brazil è, a conti fatti, un contenitore multiforme colmo di scene memorabili, vere e proprie pennellate di genio visivo e satirico che restano impresse nella memoria dello spettatore. Emblematico è il già citato momento in cui la madre convoca Sam presso il chirurgo estetico, una sorta di artista macellaio, durante una sessione di lifting feroce della pelle del viso, quasi un rituale sacrificale sull'altare della vanità e dell'eterna giovinezza. Il volto della donna si deforma grottescamente, tirato e distorto oltre ogni limite del reale, in un'immagine che è allo stesso tempo esilarante e raccapricciante, un'esemplificazione dell'orrore corporeo che pervade la visione di Gilliam e della sua critica mordace alla superficialità consumistica. E mentre quella maschera di carne subisce l'ennesima tortura estetica, Sam, in un raro momento di autenticità e disperazione, chiede a sua madre di non interferire con la sua vita, di concedergli uno spazio di autonomia. Invano naturalmente, perché la donna, accecata dalla sua ossessione per l'eterna giovinezza e il prestigio sociale, non sembra intenzionata ad ascoltarlo, incapsulata nella propria bolla di illusoria perfezione, in un dialogo tra sordi che riflette l'incomunicabilità del mondo filmico.
Altra scena memorabile, e forse la più iconica per la sua cruda e amara risoluzione, è quella finale, dove Sam viene catturato e posto al centro di un enorme salone circolare, un anfiteatro kafkiano illuminato da un'abbagliante luce bianca, in attesa di essere torturato. L'ufficialità quasi cerimoniale del setting è agghiacciante, trasformando l'atto di tortura in una procedura burocratica come un'altra. Il medico incaricato di torturarlo si avvicina lentamente alla sua postazione con una maschera bianca che gli cela il viso, simbolo dell'anonimato disumanizzante del sistema, della sua capacità di rendere gli aguzzini semplici funzionari obbedienti, privi di individualità o rimorso. Improvvisamente si volta verso la cinepresa rivelando le fattezze di una maschera inquietante, non più un volto umano ma una superficie inespressiva, specchio del vuoto morale che si cela dietro la burocrazia più spietata, mentre Sam attende il suo destino sull’orizzonte dell’inquadratura, quasi un condannato a morte che osserva il boia. L'epilogo è un colpo di genio disturbante, un balletto macabro tra speranza e delirio, dove la realtà si sbriciola e l'unica via d'uscita per la mente di Sam è la fuga nell'immaginazione, sulle note ormai distorte e ossessive del tema musicale "Brazil", che da allegro samba si trasforma in una litania ipnotica e straziante, simbolo della libertà irraggiungibile.
La narrazione di Brazil, ben lungi dal seguire un percorso lineare e rassicurante, rimane quasi sospesa, un flusso di coscienza che scivola tra i piani dell’esistenza. Si ha come l’impressione che la realtà possa venire fagocitata ad ogni istante dal piano onirico, quasi una cortina di brina che faccia da cornice ad una storia di cui non riusciamo a distinguere i contorni, e in cui ogni certezza si dissolve in un vortice di nonsense e orrore. Questa fusione tra il quotidiano e l'allucinatorio, tra la satira feroce e la tragedia intima, eleva il film a un livello di complessità psicologica rara, rendendolo non solo una distopia, ma una discesa nell'inconscio collettivo, un'esplorazione della fragilità della psiche umana di fronte alla sistematica repressione. Lo stile visivo, una sorta di comic book per immagini che recupera il bandolo sequenziale quasi per caso, è intriso di un umorismo nero e grottesco, tipico del genio di Gilliam, che trasforma le atrocità in caricature e il dramma in farsa, senza mai sminuirne la potenza emotiva. Il film è anche tristemente noto per la sua tormentata produzione: la leggendaria "Battle of Brazil" tra Gilliam e la Universal di Sid Sheinberg, che culminò con il taglio del finale voluto dal regista e la minaccia di non distribuire il film, rifletteva in modo inquietante la lotta del singolo artista contro un'istituzione, un paradosso speculare al tema stesso dell'opera. Solo grazie alla tenacia di Gilliam e all'intervento della critica di Los Angeles, la versione integrale fu finalmente distribuita, garantendone l'immortalità e la consacrazione. E proprio per questa sua fiabesca indecifrabilità, per la sua audacia nel non offrire risposte facili ma solo domande profonde, e per la sua visione impareggiabile della follia burocratica che ancora oggi risuona con drammatica attualità, "Brazil" resta una delle opere più affascinanti, complesse e disturbanti di sempre, un capolavoro senza tempo che continua a sfidare le nostre percezioni di realtà e libertà, lasciando un'eredità indelebile nel panorama cinematografico mondiale.
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