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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Bronson

2009

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Un sipario si apre su un palco buio. Un uomo, il volto dipinto come un clown da incubo espressionista, arringa una platea invisibile. Non è un film biografico, o almeno non nel senso in cui il cinema ci ha abituati a intendere il termine. È un'opera lirica punk, un grand guignol ipertrofico, un numero di cabaret eseguito sull'orlo dell'abisso. Nicolas Winding Refn, con Bronson, non racconta la vita di Michael Peterson, l'uomo che si ribattezzò Charles Bronson per diventare "il prigioniero più violento d'Inghilterra"; piuttosto, ne orchestra il mito, ne dirige l'auto-rappresentazione. Il film non si chiede "chi era?", ma "cosa voleva essere?". La risposta è semplice e terrificante: uno spettacolo. E noi siamo il suo pubblico, complici e prigionieri quanto le guardie che massacra con gioia selvaggia.

La chiave di volta per decifrare l'opera, il suo codice genetico, risiede interamente in questa cornice teatrale. Refn compie uno scarto semantico geniale, adottando la struttura del teatro epico brechtiano per narrare la saga di un uomo la cui intera esistenza è una performance. L'effetto di straniamento (il celebre Verfremdungseffekt) è totale: Bronson si rivolge a noi, ci ammicca, si pavoneggia, ci spiega le sue "ragioni", che sono la totale assenza di ragione se non la brama di fama. Non siamo invitati a empatizzare con lui, ma a osservare il meccanismo della sua auto-creazione. In questo, Bronson è fratello di sangue di Arancia Meccanica. Come l'Alex DeLarge di Kubrick, anche il Charles Bronson di Refn è un esteta della violenza, un dandy della sopraffazione che trasforma la brutalità in una forma d'arte. Entrambi sono narratori in prima persona delle proprie gesta, seducenti mostri che ci costringono a interrogarci sul fascino del male. Ma se Alex era il prodotto collaterale di una società distopica e il bersaglio di un esperimento di rieducazione, Bronson è una forza della natura pre-sociale, un id primordiale che il sistema non può né contenere né comprendere, e la cui unica ideologia è l'ego.

Al centro di questo vortice ctonio, di questa esplosione di violenza pittorica, si erge la performance che ha consegnato Tom Hardy al firmamento delle divinità attoriali. Il suo non è un lavoro di mimesi, ma di possessione. Hardy si deforma, si gonfia, si spoglia di ogni orpello psicologico per diventare puro corpo, pura muscolatura tesa allo spasimo, un ammasso di carne e furia che ricorda le figure contorte e ingabbiate di un dipinto di Francis Bacon. Ogni scatto d'ira, ogni pestaggio, ogni nudo frontale non è un atto narrativo, ma una pennellata espressionista su una tela di cemento e sbarre. C'è una scena emblematica in cui, nudo e cosparso di grasso, si lancia contro un'intera squadra di guardie carcerarie. Refn la filma in un ralenti estatico, con una fotografia satura e patinata che trasfigura la rissa in una danza macabra, una coreografia di dolore. Non stiamo guardando un uomo che combatte; stiamo assistendo all'apoteosi di un artista che ha trovato il suo medium: la propria indistruttibile carcassa. È performance art nel senso più letterale e terrificante, un Chris Burden che ha trasformato la prigione nel suo studio e le guardie nei suoi involontari materiali.

La regia di Refn è la cornice perfetta per questa mostruosità. Il suo formalismo maniacale, la sua ossessione per la simmetria quasi kubrickiana, crea una tensione insopportabile con la caos primordiale scatenato da Hardy. Ogni inquadratura è un'installazione, un quadro vivente dove il rosso del sangue e il blu delle divise creano composizioni di una bellezza agghiacciante. La colonna sonora è un altro strumento di straniamento: l'uso di brani operistici (Wagner, Verdi) o di synth-pop iconico (i Pet Shop Boys di "It's a Sin") durante le scene di massima brutalità non serve a glorificare la violenza, ma a sottolinearne la natura artificiosa, teatrale. È la playlist personale di Bronson, la musica che suona nella sua testa mentre mette in scena il suo capolavoro di autodistruzione. Come il Werner Herzog di Fitzcarraldo, che trascinava una nave su una montagna per inseguire un sogno operistico, Refn ci mostra un monomaniaco la cui ossessione non è l'arte, ma diventare arte.

Il film, girato nel 2008, è anche una dissezione spietata, e profetica, della cultura della celebrità. Bronson non vuole la libertà; la libertà lo annoia, lo priva del suo palco e del suo pubblico. Il suo obiettivo non è evadere, ma incidere il proprio nome nella storia, diventare un'icona. È l'archetipo dell'uomo che esiste solo se viene guardato, il precursore grottesco dell'era dei social media, dove la notorietà, a qualunque costo, è l'unica moneta di valore. Inserito nel contesto della Gran Bretagna post-thatcheriana, un'epoca di individualismo sfrenato e di disintegrazione delle vecchie strutture sociali, Bronson emerge come la sua creatura più logica e mostruosa: un uomo senza scopo, senza classe, senza futuro, che decide di costruire la propria identità non attraverso il lavoro o la famiglia, ma attraverso la fama criminale. È il Sogno Americano rovesciato e sputato in faccia al sistema penitenziario britannico.

Si potrebbe tentare un'analisi psicologica del personaggio, cercare traumi infantili o tare genetiche, ma sarebbe un errore, un tradimento dell'intento del film. Refn, saggiamente, evita ogni spiegazione. Bronson è un buco nero, un'assenza di motivazioni che risucchia ogni tentativo di razionalizzazione. La sua violenza non ha scopo, non è reattiva né rivoluzionaria; è tautologica. Picchia perché è un picchiatore, esiste per combattere. In questo, si avvicina a certe figure della letteratura di Jean Genet, per cui il crimine e l'abiezione diventano una via per una perversa santità laica, una trascendenza raggiunta attraverso il rifiuto totale della norma. Bronson è un santo del caos, un monaco della violenza che trova l'illuminazione nella cella d'isolamento, il suo tempio personale.

Bronson è un'opera urticante, sgradevole, eppure di una coerenza estetica abbagliante. Rifiuta la facile condanna morale così come la problematica glorificazione, scegliendo una terza via: la formalizzazione estetica. Refn non ci chiede di amare o odiare Charles Bronson, ma di ammirare la terrificante, granitica integrità della sua vocazione. È un film che non lascia scampo, che afferra lo spettatore alla gola e lo costringe a guardare, a interrogarsi sulla natura dello spettacolo, sulla sete di fama e sul confine sottilissimo che separa l'artista dal mostro. È un pugno nello stomaco avvolto in un guanto di velluto registico, un'esperienza cinematografica essenziale proprio perché ci ricorda che a volte l'arte più potente non conforta, ma scava nel buio e ci mostra la bellezza terribile che vi si nasconde.

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