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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Bullet in the Head

1990

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Regista

Un proiettile nella testa non è la fine. È l'inizio di un'eco. Un sibilo che lacera il silenzio dell'anima, un riverbero che si propaga all'infinito nel cranio svuotato di un'intera generazione. Il cinema di John Woo, prima di questo film, era stato una liturgia della violenza, un balletto ipercinetico dove la morte era coreografata con la grazia di un'aria di Puccini. Con Bullet in the Head, Woo prende quella stessa liturgia e la trasforma in un esorcismo. Non canta più l'amicizia virile e l'onore tra ladri; ne celebra il funerale con una sinfonia di urla, sangue e napalm. È la sua Passione secondo Matteo, dove il Calvario non è una collina fuori Gerusalemme, ma una giungla vietnamita e le strade al neon di una Hong Kong sull'orlo del baratro.

Il film si apre come un'illusione. Siamo nel 1967, in una Hong Kong febbrile, un crogiolo di influenze occidentali e tradizioni ancestrali. I tre protagonisti, Ben (Tony Leung), Frank (Jacky Cheung) e Paul (Waise Lee), sono fratelli di sangue, non di nascita, uniti da quel legame indissolubile che solo l'asfalto e la povertà sanno forgiare. La sequenza iniziale del matrimonio, con la sua violenza esplosiva ma ancora contenuta, quasi giocosa, è un capolavoro di prefigurazione. È l'ultimo momento di innocenza, un'illusione di controllo in un mondo che sta per travolgerli. Woo ci mostra l'archetipo dell'heroic bloodshed – l'amicizia, la lealtà, il codice della strada – solo per poterlo, più tardi, metodicamente e sadicamente smantellare. È come se Sam Peckinpah avesse deciso di riscrivere I tre moschettieri dopo aver letto Cuore di tenebra di Conrad.

Il viaggio a Saigon, intrapreso per fuggire da una vendetta e inseguire il miraggio di un arricchimento facile, è una discesa agli inferi dantesca. La città vietnamita, nel pieno del conflitto, non è un semplice sfondo esotico, ma un purgatorio morale, un catalizzatore che accelera la decomposizione dei loro ideali. La fotografia di Wilson Chan abbandona i toni caldi della nostalgia di Hong Kong per abbracciare un'estetica malata, fatta di verdi marci, rossi sanguigni e ombre che inghiottono ogni speranza. In questo caos, il trio non trova la fortuna, ma la tentazione ultima: una cassa d'oro appartenente alla CIA. È il loro Anello del Potere, l'oggetto che corrompe in modo assoluto, trasformando l'amicizia in sospetto e l'affetto in brama. Paul, il più ambizioso e fragile, è il primo a cedere, il suo sguardo si fa febbrile, la sua lealtà si sgretola come cenere.

Ma è nel campo di prigionia Viet Cong che il film trascende il genere per diventare un trattato esistenziale sulla disumanizzazione. La sequenza in cui i prigionieri sono costretti a uccidersi a vicenda è uno dei momenti più insostenibili della storia del cinema d'azione, un abisso di crudeltà che fa impallidire la roulette russa de Il Cacciatore di Cimino, film con cui Bullet in the Head condivide una struttura narrativa (tre amici, il Vietnam, la perdita dell'innocenza) ma dal quale si distacca per la sua furia operistica e la totale assenza di redenzione. Dove Cimino trovava un barlume di speranza nel rito comunitario del "God Bless America", Woo non offre alcuna consolazione. La scena del proiettile alla testa di Frank, che gli devasta il cervello ma non lo uccide, è il punto di non ritorno. È l'atto che trasforma il titolo da semplice nome a metafora vivente, una condizione permanente dell'anima. Frank, con la sua memoria a brandelli e il suo dolore incessante, diventa il fantasma urlante del loro legame perduto.

È impossibile, e intellettualmente disonesto, scindere la disperazione viscerale di questo film dal contesto storico in cui è nato. Girato a cavallo tra il 1989 e il 1990, Bullet in the Head è un grido soffocato che porta le cicatrici invisibili del massacro di Piazza Tienanmen. Sebbene la narrazione sia ambientata vent'anni prima, l'immaginario è intriso di un'angoscia contemporanea. Le scene di protesta studentesca a Hong Kong, i carri armati per le strade di Saigon, l'idealismo giovanile schiacciato dalla violenza di stato: tutto risuona come un'allegoria straziante degli eventi di Pechino. John Woo, che considerava questo il suo progetto più personale, stava incanalando il trauma collettivo di Hong Kong, una città che osservava con terrore il proprio futuro incerto sotto l'ombra della Cina e della scadenza del 1997. Il film diventa così un requiem non solo per un'amicizia, ma per un'intera epoca di speranza, un presagio funesto della fragilità della libertà individuale di fronte alla marcia inesorabile della Storia.

La sua stessa produzione fu un calvario, specchio della discesa infernale dei suoi personaggi. Il budget lievitò a dismisura, le riprese in Thailandia furono funestate da incidenti e il montaggio finale, imposto dalla casa di produzione, mutilò la visione originale di Woo di oltre trenta minuti. Il risultato fu un catastrofico flop al botteghino. Il pubblico, abituato all'estetica cool e romantica de The Killer e A Better Tomorrow, rifiutò in massa questa opera così cupa, nichilista e priva di eroi. Eppure, proprio in questo fallimento commerciale risiede la sua grandezza artistica. Bullet in the Head è John Woo senza filtri, senza la mediazione del produttore Tsui Hark con cui aveva appena rotto. È la sua tela più espressionista, un quadro di Goya dipinto con proiettili e lacrime, dove i volti sono maschere di dolore e ogni rallenti non serve a esaltare la prodezza balistica, ma a dilatare l'agonia.

Il confronto finale tra Ben e Paul non è un duello tra eroe e cattivo, ma lo scontro tra due rovine umane. Si svolge in una Hong Kong che non è più casa, ma un cimitero di ricordi. La città, con le sue luci al neon fredde e impersonali, riflette il loro vuoto interiore. La scena in cui Ben, in un gesto di pietà e disperazione finale, pone fine alle sofferenze di Frank, è di una brutalità emotiva quasi insopportabile. E quando finalmente affronta Paul, l'oro – motivo scatenante di tutto – è ormai un dettaglio insignificante. La vera posta in gioco è la cancellazione di un passato diventato troppo doloroso da sopportare. Lo schianto delle auto, le esplosioni, la furia distruttiva sono il linguaggio di chi non ha più parole per esprimere il proprio lutto.

Bullet in the Head è una tragedia greca mascherata da film d'azione. È un'epopea della decomposizione morale che usa la grammatica del cinema di genere per porre domande universali sul prezzo dell'avidità, sulla natura della lealtà e sulla capacità dell'uomo di infliggere e sopportare il dolore. È il testamento cinematografico più sincero, tormentato e, in ultima analisi, magnifico di John Woo. Un'opera che ti entra sotto la pelle, si annida nel cervello e lascia un'eco duratura, un sibilo che ti ricorda che a volte, l'unica cosa più terrificante di un proiettile nella testa è sopravvivergli.

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