C'era una volta in Anatolia
2011
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Regista
Il regista turco Nuri Bilge Ceylan prende la struttura di un genere (il film poliziesco) e la rallenta fino a quasi fermarla, svuotandola di ogni suspense convenzionale per riempirla di un peso esistenziale quasi insopportabile. È un'opera che richiede allo spettatore una resa incondizionata, un'immersione totale in un tempo e in uno spazio dilatati, dove un viaggio di poche ore attraverso la steppa anatolica diventa un'odissea nell'anima notturna dell'uomo. È un western esistenziale, un viaggio al termine della notte la cui visione è tanto impegnativa quanto, alla fine, profondamente gratificante.
L'ombra della morte è ovunque, fin dalla prima inquadratura. Si protende dalla cima di una collina e da una valle fino all'anima dei personaggi, uomini costretti a vagare nell'oscurità alla ricerca di un cadavere. La prima parte di C'era una volta in Anatolia è esattamente così: fredda come la morte, calma come la morte e scura come la morte. In questa processione notturna di automobili che tagliano il buio con i loro fari, creando isole di luce effimera in un oceano di nero, si avverte l'influenza dei grandi maestri del cinema contemplativo. I riferimenti cinematografici dell'opera di Ceylan alle opere di Abbas Kiarostami e Andrej Tarkovskij hanno fatto sì che quell'"ombra di morte" ci sorvolasse. Da Kiarostami, Ceylan prende l'idea dell'automobile come spazio cinematografico privilegiato, un confessionale mobile dove le conversazioni più banali si caricano di significati profondi. Da Tarkovskij, eredita la capacità di filmare il paesaggio come un'entità spirituale, una natura magnifica e indifferente che fa da specchio e da contraltare alle piccole e tragiche vicende umane.
La seconda metà del film, che si svolge alla luce grigia del giorno, è una chiara lotta tra ciò che vediamo sullo schermo e ciò che percepiamo dalla narrazione. La notte, con i suoi misteri e le sue ombre, è finita. Ora c'è la cruda realtà del corpo, dell'autopsia, della burocrazia. Non c'è alcun segno visivo della morte in quanto tale, nel senso di un'azione o di un evento drammatico, ma il suo significato persiste, tanto che la notte non è ancora finita, o in altre parole: la morte non ha bisogno che tu la veda con i tuoi occhi, può far sentire la sua presenza nel profondo della tua esistenza, anche sotto la luce più spietata. L'opera di Ceylan è una magistrale esibizione della morte come una condizione permanente, che ne siamo consapevoli, che sia la notte buia o la luce del giorno.
Questa ossessione per la mortalità e per il viaggio come discesa agli inferi lega indissolubilmente il film a una certa tradizione letteraria. Se si deve cercare un padrino spirituale per questa carovana notturna, quello non può che essere Louis-Ferdinand Céline. Il film di Ceylan è un Viaggio al termine della notte anatolico. C'è la stessa stanchezza esistenziale, la stessa peregrinazione attraverso un paesaggio spogliato di ogni illusione, la stessa conversazione che si fa veicolo di un profondo pessimismo cosmico. I personaggi (il dottore, il procuratore, il commissario di polizia) parlano per riempire il silenzio, per combattere la stanchezza e l'oscurità, e le loro storie, i loro aneddoti, sono piccole finestre su un mondo di dolore, rimpianto e assurda casualità. La morte, come in Céline, non è un evento tragico e culminante, ma una condizione di fondo, il rumore bianco che accompagna l'intera esistenza.
Ma allora, qual è la potente metafora che si nasconde dietro questa trama apparentemente così semplice? La ricerca del cadavere è, in realtà, la ricerca della Verità in un mondo che ne è privo. Il corpo sepolto è l'unica, presunta certezza, il fatto oggettivo attorno a cui ruota l'intera indagine. Ma il viaggio per trovarlo rivela che ogni uomo in quella carovana sta portando con sé il proprio cadavere sepolto: un segreto, un rimorso, una tragedia personale. Il procuratore racconta la storia inquietante di una donna morta in circostanze misteriose dopo aver predetto il giorno esatto della sua morte. Il dottore, il nostro punto di vista principale, è un uomo divorziato, perseguitato dal fantasma di un errore passato. Il commissario è afflitto da problemi familiari. La ricerca esteriore del corpo diventa un pretesto per una discesa interiore nelle loro vite frammentate. La verità che trovano alla fine non è quella risolutiva di un caso di polizia, ma una verità più amara e complessa sulla natura umana.
La seconda parte del film, con l'arrivo nella cittadina e l'autopsia, è una magistrale autopsia della verità stessa. La notte poetica e metafisica lascia il posto alla prosa clinica e brutale della scienza e della burocrazia. Eppure, anche qui, la certezza è un'illusione. Durante l'autopsia, il dottore, l'uomo della ragione, nota un dettaglio terribile: potrebbe esserci stata terra nei polmoni della vittima, il che significa che potrebbe essere stata sepolta viva. La verità oggettiva, una volta trovata, si rivela ancora più orribile e ambigua. Ma il vero cuore del film, il momento di grazia inaspettata, arriva quando il dottore si trova di fronte alla vedova della vittima. La macchina da presa di Ceylan si sofferma sul volto bellissimo e dignitoso della donna mentre serve il tè, e poi sul volto del dottore che la osserva. In quello scambio di sguardi, silenzioso e prolungato, passa un intero universo di storie non raccontate, di dolore condiviso, di una fragile e improvvisa connessione umana. In quel momento, il film trascende il cinismo e la disperazione e tocca una nota di pura, straziante empatia. È un capolavoro che usa la lentezza come uno strumento morale, costringendoci a guardare, a sentire e a pensare. Non offre soluzioni, ma, come la mela che rotola giù da una collina in una delle sue scene più belle, ci mostra la bellezza inaspettata e la triste ineluttabilità del nostro viaggio verso l'oscurità.
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