Cabaret
1972
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Regista
Bob Fosse compie forse la più complicata ed azzardata operazione di collatio della storia del cinema. Il coreografo e regista infatti per mettere in piedi la drammaturgia di questo film fonde insieme cinque elementi narrativi: tre romanzi, una pièce teatrale ed un musical, ossia prendendo spunto dalle storie di Christopher Isherwood, dal testo teatrale I’m a Camera di John Van Druten e dal libretto del musical Cabaret di Joe Masteroff. Questo ambizioso sincretismo non è una semplice giustapposizione, ma una vera e propria distillazione alchemica, capace di estrarre l’essenza più acuta e dolorosa di ciascun testo per forgiarne una nuova, potentissima identità cinematografica. Fosse non si limita a trasporre; egli reinterpreta, decontestualizza il musical tradizionale spostando le performance interamente all'interno del Kit Kat Club, trasformando così ogni numero musicale in un commento diegetico, una finestra sul mondo esterno che si riflette, distorta e amplificata, sul piccolo palco illuminato. È una scelta rivoluzionaria che redefine i contorni del genere, sottraendolo alla favola zuccherosa per immergerlo in un realismo crudo e implacabile.
Il risultato è uno straordinario pastiche dove immagine e parola cantata si avvinghiano fino a formare un unico affascinante elemento espressivo. Questo ibrido stilistico non è solo narrativo, ma permea ogni fotogramma, intriso com'è delle atmosfere decadenti e febbricitanti della Repubblica di Weimar. Fosse evoca lo spirito del teatro di Bertolt Brecht e Kurt Weill, con il suo distacco ironico e la sua capacità di far emergere la realtà politica e sociale attraverso la lente distorta dell'intrattenimento. La macchina da presa si fa occhio clinico, spesso statica o con movimenti lenti e carichi di presagio, riflettendo l'estetica del cinema espressionista tedesco, in un gioco di specchi che moltiplica le immagini e le ambiguità. Berlino, città babelica e vibrante, si manifesta come una Babilonia moderna sull'orlo del baratro, un luogo di edonismo sfrenato e libertà effimere destinate a essere spazzate via.
La storia è imperniata sulla ballerina di avanspettacolo Sally Bowles (interpretata da un’ispiratissima Liza Minnelli) che nella Berlino degli anni '30 colleziona amanti viaggiando sulla lama sottile del nascente antisemitismo nazista. La performance di Minnelli, iconica e indimenticabile, va ben oltre l'ispirazione: è una vera e propria possessione artistica. Sally non è solo una figura vivace e dissoluta; è un prisma attraverso cui Fosse riflette la complessa ingenuità, la disperazione velata e la tragica auto-illusione di un'intera generazione. La sua energia magnetica è un velo che nasconde una profonda fragilità, una cieca determinazione a ignorare l'orrore che avanza. Il Kit Kat Club, con le sue luci soffuse e il suo fumo denso, diventa un ventre materno, un rifugio provvisorio dalla realtà esterna, ma anche una gabbia dorata in cui l'illusione si scontra con l'inevitabile. L'incredibile chimica tra Sally, il timido accademico Brian Roberts (Michael York) e l'ambiguo edonista Maximilian von Heune (Helmut Griem) traccia un triangolo amoroso che è al contempo una microstoria sessuale e un barometro della fluidità morale di un'epoca che stava perdendo ogni bussola etica.
Inutile dire che le scene di ballo e canto, coreografate dallo stesso Fosse, sono a dir poco sublimi. La sua inconfondibile estetica fatta di isolamenti, ancheggiamenti sinuosi, cappelli che celano sguardi complici e l'uso espressivo delle mani, eleva la danza a linguaggio universale. Ogni numero al Kit Kat Club non è un semplice intermezzo, ma un tassello narrativo essenziale, un sarcasmo musicale che commenta, prefigura o ironizza sugli eventi che si svolgono al di fuori del palcoscenico. Da "Money, Money" che riflette la crisi economica e la ricerca disperata di sicurezza, a "If You Could See Her Through My Eyes" con la sua tagliente satira dell'antisemitismo, fino al terrificante "Tomorrow Belongs To Me", intonato in una Biergarten, che segna il raccapricciante passaggio dal nazionalismo innocuo al totalitarismo violento e pervasivo. Quest'ultima scena, priva di coreografia ma densa di terrore montante, è un colpo da maestro che cristallizza la lenta, inesorabile infiltrazione del male nella società civile. È un momento che si imprime a fuoco nella memoria, mostrandoci non solo l'ascesa del nazismo, ma anche la sua seduzione e la sua capacità di corrompere l'anima.
Ma non meno sensazionale è la sceneggiatura che aggiunge una forte sensazione di contrasto emozionale al cantato e al ballato creando una sorta di corpus narrativo unico tra parola, canto e ballo. La fluidità con cui le vicende personali dei protagonisti si intrecciano con la montante marea politica e con le performance sul palco è magistrale. La tensione emotiva non è mai statica; oscilla tra un'allegra disperazione e un'angoscia crescente, dipingendo un quadro di disillusione che Fosse amplifica con una regia che non ha paura di mostrare la bruttezza e la perversione che si nascondono dietro lo scintillio delle paillettes. È un film che, pur celebrando la libertà dell'espressione artistica, la incornicia in un contesto di imminente oppressione, suggerendo che perfino la più sfrenata delle ribellioni può essere soffocata. L'ironia amara di Cabaret risiede proprio in questo: nell'irrefrenabile vitalità che si consuma e spegne sotto il peso di una storia inesorabile.
Un’opera dove il corpo è libero di esprimersi e dove fatalmente si resta incatenati a seguirne le duttili plastiche armonie, mentre il mondo fuori precipita nel baratro. In definitiva, Cabaret non è solo un musical o un dramma storico; è una danza macabra sulla fine di un'epoca, un monito sulla fragilità della libertà e sulla facilità con cui la bellezza e l'arte possono essere cooptate o annientate dal fanatismo. Fosse ci consegna un capolavoro di amara bellezza, un'esperienza visiva e sonora che rimane scolpita nella coscienza collettiva, ben oltre il sipario finale.
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