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Cane di paglia

1971

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Un trattato di fisica applicata può dimostrare, con elegante certezza matematica, come una pressione sufficiente possa trasformare il carbone in diamante. Sam Peckinpah, nel suo brutale e tellurico capolavoro del 1971, applica un teorema simile all'animo umano, sostituendo la pressione geologica con la violenza primordiale e il carbone con l'intellettuale moderno. Il risultato, tuttavia, non è un diamante, ma un frammento di ossidiana: nero, tagliente, forgiato nel fuoco di un istinto che credevamo sepolto sotto strati di civiltà. Cane di paglia non è un film; è una vivisezione, un esperimento antropologico condotto con la precisione di uno scienziato pazzo e la foga di un bardo sanguinario.

Il titolo stesso, sottratto a un passo del Tao Te Ching di Lao Tzu, è una dichiarazione d'intenti di un cinismo cosmico: «Il cielo e la terra non hanno sentimenti umani; trattano le diecimila creature come cani di paglia». In questa visione, non c'è morale, non c'è intervento divino, ma solo un universo indifferente in cui le forze della natura – e la natura umana è tra queste – agiscono secondo leggi inesorabili. L'uomo che si trova al centro di questo esperimento è David Sumner, un matematico americano interpretato da un Dustin Hoffman magnificamente fuori ruolo. Hoffman, ancora avvolto nell'aura di goffa ribellione de Il Laureato e nella disperazione urbana di Un uomo da marciapiede, incarna qui la quintessenza dell'uomo civilizzato del XX secolo. Si rifugia nella campagna della Cornovaglia, terra natale della giovane e provocante moglie Amy (Susan George), per sfuggire alla violenza e alla polarizzazione dell'America del Vietnam e trovare la quiete necessaria per i suoi calcoli sulle strutture stellari. Ironia suprema: cerca l'ordine del cosmo in un luogo che sta per precipitarlo nel caos più atavico.

La Cornovaglia di Peckinpah non è la ridente campagna inglese delle cartoline. È un paesaggio ferino, ancestrale, una sorta di Wessex hardyniano privato di ogni romanticismo e immerso in un'atmosfera da racconto gotico. Le sue brume, le sue pietre antiche e i suoi pub claustrofobici diventano il correlativo oggettivo di una comunità chiusa, tribale, governata da codici non scritti di mascolinità e territorialità. David, con i suoi occhiali cerchiati, la sua pedanteria intellettuale e la sua incapacità di comprendere (o di voler affrontare) il linguaggio della forza bruta, è un alieno. Gli uomini del villaggio, guidati dall'ex fiamma di Amy, Charlie Venner, lo scrutano con un misto di disprezzo e curiosità, come un branco di lupi che studia un animale sconosciuto entrato nel suo territorio. Lo scontro non è solo culturale – l'americano urbano contro l'inglese rurale – ma archetipico: la Ragione contro l'Istinto, Apollo contro Dioniso.

Peckinpah orchestra la discesa agli inferi di David con una lentezza esasperante e magistrale. La violenza non esplode, ma si infiltra, goccia a goccia, attraverso una serie di umiliazioni e micro-aggressioni. Il gatto della coppia impiccato nell'armadio non è un semplice atto di crudeltà; è un messaggio simbolico, un sacrificio rituale che segna la violazione dello spazio domestico, il primo strappo nel tessuto della civiltà. David, fedele al suo credo razionalista, cerca di minimizzare, di negoziare, di applicare la logica a una situazione che è puramente illogica, ferina. La sua passività, la sua riluttanza a confrontarsi, viene interpretata dai suoi antagonisti non come superiorità morale, ma come debolezza, un invito a un'ulteriore escalation. È l'aporia dell'uomo moderno: la sua civiltà è la sua stessa gabbia.

In questo, Cane di paglia dialoga a distanza con il coevo Un tranquillo weekend di paura di John Boorman, ma se lì la natura selvaggia era un'entità esterna che assaliva i cittadini, qui il deserto è dentro gli uomini. L'intera architettura del film è una meticolosa applicazione delle teorie di Robert Ardrey su L'imperativo territoriale, un testo pop-antropologico allora molto in voga che postulava la difesa del proprio territorio come un istinto biologico insopprimibile, comune all'uomo e all'animale. La fattoria isolata di Trencher's Farm non è una casa, ma una tana, un nido. E quando questo spazio viene violato nella maniera più brutale e definitiva – con la famigerata e controversa scena del doppio stupro di Amy – ogni contratto sociale è infranto.

La sequenza dello stupro rimane uno dei momenti più dibattuti e problematici della storia del cinema. Peckinpah la filma con una complessità psicologica disturbante, confondendo i piani, suggerendo una terribile ambiguità nella reazione iniziale di Amy verso Charlie, prima che l'orrore prenda il sopravvento con l'arrivo del secondo uomo. Non è una scelta gratuita o pruriginosa, ma un affondo crudele nella torbida psicologia dei personaggi e nella dinamica di potere sessuale che ha serpeggiato sotto la superficie fin dalla prima inquadratura. È la negazione definitiva della logica di David: mentre lui è a caccia con gli uomini che lo umiliano, il suo "territorio" più intimo viene invaso. La scoperta di questa violazione, unita alla necessità di difendere un altro "debole", il ritardato mentale Henry Niles, diventa il catalizzatore che finalmente spezza le catene della sua razionalità.

L'assedio finale è una delle più grandi sinfonie di violenza mai concepite per lo schermo. È qui che il film trascende il thriller psicologico per diventare una catabasi in piena regola, un'immersione nel cuore di tenebra conradiano che non si trova in Congo, ma nel soggiorno di una casa di campagna. David, il matematico, applica finalmente il suo ingegno non a problemi astratti, ma alla fisica concreta della sopravvivenza. Le sue armi non sono pistole, ma oggetti quotidiani trasformati in strumenti di morte: una trappola per orsi dal sapore quasi medievale, l'olio bollente, un attizzatoio. Ogni uccisione è goffa, sporca, disperata. Non c'è l'elegante coreografia di un film d'azione; c'è il panico, il peso dei corpi, il suono sordo di un colpo. Peckinpah, il "poeta della violenza", non estetizza la morte, ma ne mostra la meccanica brutale, il suo essere un lavoro faticoso e orribile.

Rilasciato nello stesso anno di Arancia Meccanica di Kubrick, Cane di paglia forma con esso un dittico agghiacciante sullo studio della violenza umana. Ma se Kubrick adotta una lente satirica e distopica, sezionando la violenza come un costrutto sociale da manipolare o curare, Peckinpah la tratta come una forza della natura, inestirpabile e fondamentale. La domanda che pone non è "come possiamo eliminare la violenza?", ma "cosa succede quando un uomo è costretto a riconoscerla come parte di sé?".

Il finale è di una perfezione gelida. David si allontana in auto nella notte, dopo aver trasformato la sua casa in un mattatoio. Henry Niles, seduto accanto a lui, gli dice: "Non so la strada di casa". E David, con un sorriso quasi impercettibile, enigmatico come quello di un arcaico kouros, risponde: "Non la so neanch'io". È una delle battute conclusive più potenti e desolanti del cinema. David ha difeso la sua casa, ha affermato la sua mascolinità secondo i codici primitivi che inizialmente disprezzava, ha vinto. Ma nel processo, ha perso la strada verso l'uomo che credeva di essere. O forse, più terribilmente, l'ha trovata. Ha scoperto che la sua vera "casa" non è un luogo fisico, ma uno stato dell'essere, un nucleo primordiale e violento che l'intelletto aveva solo temporaneamente sopito. Ha guardato nell'abisso e l'abisso non solo ha ricambiato lo sguardo, ma gli ha offerto le chiavi di casa. Cane di paglia è un film scomodo, offensivo, forse persino reazionario nella sua visione della mascolinità, ma la sua coerenza filosofica è inscalfibile e la sua potenza cinematografica è quella di una tragedia greca riscritta da Thomas Hobbes. È un teorema spaventoso dimostrato con il sangue, che ci lascia con una sola, terrificante certezza: grattate la superficie di qualsiasi uomo e troverete un territorio da difendere. E un animale pronto a farlo.

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