Capitani coraggiosi
1937
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Regista
Un'epifania non si sceglie. Sopraggiunge violenta, un'onda anomala che travolge le certezze di una vita protetta, costringendo l'anima a un'apnea forzata da cui si riemerge trasformati o non si riemerge affatto. Per il giovane Harvey Cheyne, viziato rampollo di un magnate dell'industria, questo schianto esistenziale prende la forma di un tuffo involontario nelle gelide acque dell'Atlantico, un battesimo salato e brutale che lo strappa dal lussuoso transatlantico, metafora di un'esistenza sterile e isolata, per gettarlo sul ponte della goletta da pesca We're Here. È qui, tra le reti, l'odore di merluzzo e la saggezza ruvida di uomini forgiati dal mare, che il cinema di Victor Fleming orchestra uno dei più potenti e archetipici Bildungsroman dell'età d'oro di Hollywood. Capitani coraggiosi (1937) è molto più di un film d'avventura marittima; è la cronaca di una trasmutazione alchemica, un'odissea interiore mascherata da racconto picaresco.
L'operazione condotta dalla MGM sul romanzo omonimo di Rudyard Kipling è di per sé un atto di critica culturale e di trasposizione semantica. Il libro di Kipling, del 1897, è intriso di un'etica vittoriana e di un certo determinismo imperiale: il giovane Harvey apprende la disciplina e il valore del lavoro per diventare un degno erede del capitalismo paterno, un "capitano d'industria" che applica la lezione del mare al dominio della terra. Il film di Fleming, girato nel cuore della Grande Depressione e sotto l'influenza culturale del New Deal rooseveltiano, devia sottilmente ma inesorabilmente la rotta. La goletta We're Here non è più solo una scuola di vita spartana, ma un microcosmo utopico, un'arca noachica del proletariato dove il valore di un uomo non è misurato dal suo conto in banca, ma dalla forza delle sue braccia e dalla purezza del suo cuore. Il film non predica la rivoluzione, ma una riconciliazione di classe quasi evangelica, dove il ricco impara l'umanità dal povero, e il povero, con la sua nobiltà intrinseca, redime il ricco.
Al centro di questa parabola laica sorge una delle performance più iconiche e commoventi della storia del cinema: lo Spencer Tracy pescatore portoghese Manuel Fidello. Un ruolo che gli valse un meritatissimo Oscar e che trascende la pur vistosa imprecisione del suo accento. Il Manuel di Tracy non è un semplice personaggio; è una figura mitopoietica, un Caronte benigno che non traghetta le anime verso l'Ade, ma le riporta alla vita. Con il suo organetto scassato e la sua canzone malinconica e immortale ("O pescatore dell'onda"), Manuel diventa per Harvey ciò che Virgilio fu per Dante: una guida spirituale. Non gli insegna solo a pescare, a innescare un amo o a leggere il vento; gli insegna il linguaggio primordiale della fatica, della perdita, della gioia semplice e della dignità. È una figura cristologica laica, un pescatore di anime che, attraverso un atto di amore paterno surrogato, compie il miracolo di trasformare un piccolo mostro di arroganza in un essere umano. La chimica tra Tracy e il prodigioso Freddie Bartholomew è il motore emotivo del film, un duetto di sguardi, gesti e silenzi che comunica più di mille pagine di dialogo.
Victor Fleming, artigiano supremo della macchina spettacolare hollywoodiana (due anni dopo firmerà, nello stesso anno, Il mago di Oz e Via col vento, un'impresa registica che grida al miracolo industriale), dirige con una mano solida e un senso quasi documentaristico per il dettaglio. Le sequenze di pesca, in parte girate in location al largo di Terranova, possiedono una fisicità e un'autenticità mozzafiato. La macchina da presa si incolla ai volti segnati dal sole e dal sale degli uomini, cattura lo sforzo dei muscoli, il pericolo costante delle onde, la bellezza terribile e sublime dell'oceano. Fleming non estetizza il lavoro, ma lo nobilita, trovando una sorta di epica omerica nel gesto quotidiano di gettare e ritirare le reti. In questo, il film si pone come un curioso contraltare marino all'Uva della rabbia di John Ford: se Ford cercava la dignità nella polvere e nella migrazione terrestre dei diseredati, Fleming la trova nell'orizzonte sconfinato e nella comunità galleggiante di una goletta, unita da un codice d'onore non scritto e da un destino comune.
La sceneggiatura, opera di un trio di talenti tra cui John Lee Mahin e Marc Connelly, è un capolavoro di struttura e di progressione psicologica. La trasformazione di Harvey non è istantanea, ma graduale, segnata da tappe precise che sono altrettante lezioni di vita. La sua iniziale incredulità e tracotanza si scontrano con il muro di pragmatismo del Capitano Disko Troop (un Lionel Barrymore perfetto nella sua burbera integrità), per poi essere scalfite dalla gentilezza di Manuel. Ogni piccola vittoria – il primo pesce pescato, il primo dollaro guadagnato con il sudore, la prima volta che si sente parte di un "noi" – è una crepa che si apre nella corazza del suo privilegio. È un percorso epistemologico, prima che morale: Harvey non impara solo cosa è giusto, ma impara a vedere il mondo e gli altri in un modo nuovo.
Il film, tuttavia, non si accontenta della facile retorica. Raggiunge le sue vette più alte quando osa abbracciare la tragedia, comprendendo che nessuna vera crescita è possibile senza una perdita lacerante. La morte di Manuel, nel suo disperato e glorioso tentativo di salvare l'albero maestro durante la regata contro lo Jennie Cushman, non è un semplice colpo di scena melodrammatico. È un sacrificio necessario, la catarsi finale che sigilla la trasformazione di Harvey. Come un maestro zen che, completata la sua opera, scompare, Manuel deve uscire di scena perché il suo allievo possa camminare con le proprie gambe. La sua morte è l'ultima, terribile lezione sul coraggio, sulla responsabilità e sulla natura transitoria della vita. La sequenza del suo funerale in mare, con il giovane Harvey che getta fiori sull'acqua mentre la ciurma intona un canto funebre, è di una potenza emotiva straziante, un momento di cinema puro che si imprime nella memoria dello spettatore con la forza di un'incisione.
Nel finale, quando il padre di Harvey (un misurato Melvyn Douglas), finalmente strappato al suo mondo di affari e statistiche, ritrova il figlio, non si trova di fronte lo stesso bambino che aveva perso. Si trova di fronte a un giovane uomo che ha guardato in faccia la fatica e la morte, e che ora può, a sua volta, insegnare qualcosa al padre. La riconciliazione non è solo un abbraccio, ma un nuovo equilibrio di potere e di comprensione. Capitani coraggiosi si chiude così, completando il suo cerchio tematico: è una fiaba morale profondamente americana, un'allegoria sull'importanza di sporcarsi le mani per ritrovare l'anima, un inno alla paternità spirituale che può essere più forte di quella biologica. Un'opera che, sotto la sua superficie di robusto intrattenimento per famiglie, nasconde la profondità di un mito senza tempo, ricordandoci che a volte, per imparare a stare al mondo, è necessario prima perdersi in mare.
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