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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Carrie - Lo sguardo di Satana

1976

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Il sangue apre e chiude il cerchio. Non un sangue qualunque, ma il sangue primordiale, quello che segna il confine tra l'infanzia e la tempesta, tra l'innocenza e la conoscenza carnale che tanto terrorizza i puritani d'America. La prima goccia, segreta e umiliante nella doccia di un liceo, scatena un coro di scherno crudele; l'ultima, un diluvio apocalittico di vendetta che tinge di rosso la memoria collettiva del cinema. In mezzo, Brian De Palma orchestra una sinfonia del terrore che è al contempo melodramma sirkiano perverso, parabola biblica rovesciata e la più devastante metafora dell'angoscia adolescenziale mai impressa su pellicola. Carrie, tratto dal romanzo d'esordio di un giovane Stephen King ancora lontano dall'essere un'istituzione, è il punto di rottura in cui l'horror americano smette di guardare ai mostri esterni – vampiri, fantasmi, creature – e rivolge la sua lente d'ingrandimento sull'orrore che cova all'interno: nella famiglia, nella scuola, nella psiche.

De Palma, all'epoca un giovane virtuoso infatuato di Hitchcock fino all'ossessione, non si limita a un adattamento fedele. Egli fagocita la prosa grezza e diretta di King e la trasfigura attraverso un formalismo barocco, quasi operistico. Il suo sguardo è quello di un voyeur, un entomologo che spilla i suoi personaggi a uno schermo che si fa vetrino da microscopio. L'uso dello split-screen nel climax non è un mero vezzo stilistico; è la frammentazione visiva di una mente che si è spezzata, un modo per mostrare simultaneamente causa ed effetto, azione e reazione, la carnefice e le sue vittime in un unico, ineluttabile quadro di distruzione. La telecamera fluttua, spia, si insinua negli spogliatoi femminili con una lubricità che anticipa la violenza, trasformando lo spettatore in un complice dello sguardo predatorio che perseguita Carrie White. È un cinema che non nasconde mai i suoi meccanismi, che esibisce la propria natura manipolatoria, proprio come i bulli del liceo Bates manipolano la loro vittima designata. De Palma riprende il voyeurismo di Psycho e la suspense di Vertigo, ma li contamina con un'estetica da Giallo italiano e la brutalità estatica di un Sam Peckinpah, creando un ibrido stilistico tanto sfacciato quanto geniale.

Al centro di questo uragano visivo, due performance che trascendono il genere e si iscrivono nella storia. Sissy Spacek, con i suoi occhi spalancati su un mondo che la respinge e la sua fisicità da creatura ultraterrena, non interpreta Carrie: è Carrie. È una marionetta disarticolata i cui fili sono tirati da una madre mostruosa e da una società indifferente. Il suo corpo esile, quasi traslucido, diventa il campo di battaglia tra repressione e potere nascente. Quando finalmente sorride al ballo, illuminata da una luce morbida che la fa assomigliare a una santa preraffaellita, il suo trionfo è così fragile e così puro che la successiva umiliazione diventa intollerabile non solo per lei, ma per chiunque abbia mai provato la morsa del sentirsi "sbagliato". La sua trasformazione da vittima a Nemesi non ha nulla di catartico; è una tragedia greca in minigonna, lo sguardo fisso e catatonico di una divinità della distruzione che non prova piacere nella sua vendetta, ma solo un vuoto cosmico.

Di fronte a lei, Piper Laurie offre una delle più terrificanti incarnazioni del fanatismo religioso. La sua Margaret White non è una semplice caricatura; è un archetipo gotico strappato dalle pagine di Flannery O'Connor e trapiantato in un sobborgo californiano. Con i suoi capelli rossi che sono un presagio di fuoco e sangue, Laurie recita come se fosse sul palco di un teatro espressionista, con gesti ampi e una voce che oscilla tra il sussurro suadente e l'urlo isterico. La sua fede è un'arma, la sua casa una prigione, il suo amore una forma di tortura. La scena della preghiera forzata nello sgabuzzino, illuminato da una candela che proietta ombre demoniache, è puro cinema del terrore psicologico, un'esplorazione dell'abuso che anticipa di decenni molte analisi successive. La sua morte, trafitta da coltelli che la trasformano in una macabra versione del San Sebastiano del Mantegna, è il culmine di questa estetica sacrilega che pervade l'intera pellicola.

Carrie arriva nel 1976, nel cuore di un decennio segnato dal disincanto post-Vietnam e Watergate, un'epoca in cui l'utopia degli anni '60 si era definitivamente infranta contro il muro della realtà. Il liceo americano, spesso rappresentato come un idillio di spensieratezza, diventa qui un microcosmo della crudeltà sociale, una spietata arena darwiniana dove il diverso viene sistematicamente epurato. I "cattivi" del film, da Chris Hargensen (una Nancy Allen superbamente odiosa) a Billy Nolan (un giovane e già carismatico John Travolta), non sono mostri, ma prodotti ordinari di una cultura basata sulla conformità e sulla prevaricazione. La loro violenza non è meno terrificante di quella telecinetica di Carrie, perché è più subdola, più quotidiana. In questo senso, il film si inserisce in quella corrente del "New Hollywood" che smontava i miti fondativi americani, mostrando il marcio che si nascondeva dietro le facciate perfette delle villette a schiera.

Si potrebbe leggere Carrie attraverso innumerevoli lenti. È una favola di Cenerentola al contrario, dove la scarpetta di cristallo è un secchio di sangue di maiale e il principe azzurro muore incenerito. È un'allegoria femminista sulla riappropriazione del corpo femminile e sulla rabbia repressa che esplode contro un patriarcato che vuole controllarlo e umiliarlo (il primo sangue è la mestruazione, il potere telecinetico si manifesta con essa). Ma è anche, forse, una visione reazionaria che associa il potere femminile a una forza distruttiva e irrazionale, un'eco delle antiche paure legate alla stregoneria. La grandezza dell'opera di De Palma sta proprio in questa ambiguità, nel rifiuto di fornire una morale semplice. Carrie non è né un'eroina né una "villain". È un evento. Una reazione chimica inevitabile all'incrocio tra oppressione religiosa, bullismo sistemico e il risveglio di un potere che non può essere contenuto.

E poi c'è il finale. Dopo la quiete apparente, il sogno pastorale di Sue Snell che porta fiori sulla tomba di Carrie, arriva l'ultima, insostenibile scossa. La mano che emerge dalla terra non è solo uno dei più grandi e imitati "jump scare" della storia del cinema. È la negazione definitiva di ogni catarsi, la riaffermazione che il trauma non può essere sepolto, che l'orrore, una volta scatenato, lascia cicatrici indelebili nella psiche. È il ritorno del represso in forma puramente freudiana, un grido dall'inconscio che ci ricorda che certi incubi non finiscono mai. Con quell'ultima, agghiacciante immagine, Carrie smette di essere semplicemente un film dell'orrore e diventa esso stesso un trauma cinematografico, un capolavoro immortale che ha insegnato a un'intera generazione che l'inferno non è un luogo ultraterreno, ma può essere un ballo scolastico, e che non c'è sguardo più terrificante di quello di una ragazza che ha finalmente smesso di piangere.

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