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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Carter

1971

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Dimenticatevi i gangster in bombetta e gessato scintillante alla Guy Ritchie (che, ammettiamolo, sono debitori fino al midollo di questo film). Carter è un'altra bestia. È un pugno nello stomaco avvolto in un impermeabile di tweed, un viaggio di vendetta che inizia con un treno che fende il paesaggio industriale grigio e senza speranza dell'Inghilterra del Nord.

Michael Caine è Jack Carter, l'esattore di Londra che torna nella sua città natale, Newcastle, per investigare sulla morte "accidentale" del fratello Frank. Dico subito: la performance di Caine in questo ruolo non è solo un'interpretazione, è una definizione. Il suo Carter è un uomo di ghiaccio vestito di tutto punto, il cui aplomb londinese nasconde una violenza primordiale, un nichilismo esistenziale che lo rende quasi disumano. È l'incarnazione del working-class che ha cercato di elevarsi, di vestire panni più puliti, solo per scoprire che la sporcizia è intrinseca al suo DNA, al suo ambiente. È il fantasma del Michael Caine che sarebbe potuto diventare, come lui stesso ha ammesso.

Una delle chiavi di volta del film, e il motivo per cui è un cult generazionale, è la sua ambientazione. Hodges non ci mostra la Swinging London patinata o le cartoline turistiche. Ci sbatte in faccia la Newcastle industriale, disperata e decadente dei primi anni '70. I pub fumosi, le pensioni squallide, gli edifici brutalisti in costruzione (simbolo di un progresso illusorio e disumanizzante) e, in un finale da brividi, quella spiaggia nera per i detriti di carbone.

La città non è uno sfondo, è una metafora visiva dello stato morale dei suoi abitanti: tutto è sporco, corrotto e tendente al nero. Hodges, con il direttore della fotografia Wolfgang Suschitzky (sì, quello di Flash Gordon e di altri cult!), utilizza una fotografia documentaristica, grezza, che conferisce al film un realismo sconvolgente. Quando Carter si muove in questo paesaggio, vestito nel suo elegante completo sartoriale, sembra un predatore alieno o un virus, troppo sofisticato per l'ambiente ma destinato a esserne corrotto e infine inghiottito. La sua vendetta non è un atto catartico; è un banale (ma brutale) ritorno alla mediocrità del fango da cui è venuto.

Un capitolo a parte merita la colonna sonora di Roy Budd. Dimenticate le sinfonie orchestrali. Budd ci regala un sound minimalista, un jazz ossessivo, distorto, con un tema principale che è un riff di pianoforte ipnotico e malinconico, un vero e proprio mantra del nichilismo. Il tema di Carter non "accompagna" le scene, le definisce; è la colonna vertebrale emotiva (o la sua assenza) del protagonista.

Ogni nota sembra vibrare della solitudine e della furia repressa di Jack, creando un'atmosfera che è fredda come il cemento e tagliente come un rasoio. È un capolavoro di economia musicale, un trip sonoro che ha influenzato generazioni di colonne sonore noir e thriller.

Quando parlo di spietatezza, intendo che Carter rompe con la tradizione del cinema gangster inglese precedente. La violenza qui non è stilizzata, non è eroicizzata, e soprattutto non è divertente. È rapida, brutale, inaspettata e, cosa più importante, senza glamour. Carter non è un anti-eroe con cui empatizzare. È un psicopatico elegante mosso da una vendetta sporca, che lo porta a scoprire una verità ancora più sordida di quanto potesse immaginare (il coinvolgimento della nipote in film pornografici, un sottotesto all'epoca incredibilmente audace e disturbante). Il suo è un percorso senza redenzione.

Carter è basato sul romanzo Jack's Return Home di Ted Lewis, ma Hodges, che ha curato la sceneggiatura, ha affinato il tutto in un meccanismo a orologeria di pura tensione. La trama, sebbene complessa (come notato da alcuni critici iniziali che non avevano capito un accidente), è in realtà di una semplicità implacabile: la vendetta è l'unico motore. Ogni personaggio che Carter incontra è un ingranaggio della macchina del crimine, un anello della catena di corruzione che ha ucciso suo fratello.

Da un punto di vista strutturale, il film è una discesa agli inferi che prende in prestito tanto dal western (il loner che torna in città per affrontare i cattivi) quanto dal noir classico americano (l'indagine solitaria, la femme fatale ambigua, la verità nascosta dietro un velo di perversione). Ma Hodges distorce questi archetipi, tingendoli di un cinismo tutto britannico, privo di ogni moralità hollywoodiana. Non c'è giustizia, solo la ferocia della ritorsione.

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