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Casinò

1995

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L’ errore più grossolano che si può commettere è quello di accostarlo a Quei Bravi Ragazzi.

La vicinanza semantica con i personaggi di Goodfellas, in particolar modo nei due personaggi principali interpretati da De Niro e Pesci (gli stessi interpreti del film precedente), potrebbe indurre in errore. Ma dove il capolavoro del 1990 si configurava come una cronaca quasi documentaristica dell'ascesa e della caduta di un "bravo ragazzo" nell'intricato mosaico della criminalità organizzata newyorkese, un'immersione nel fascino perverso e nella brutale realtà del sogno americano malato, Casinò si distacca con decisione. Non è un semplice sequel spirituale, né una variazione sul tema della gangster story; è una discesa agli inferi, un’esplorazione viscerale e impietosa dell'autodistruzione. Se Goodfellas era un affresco corale sulla seduzione e il tradimento di un certo stile di vita, Casinò è un'anatomia patologica di tre anime dannate, un'opera più intima e, per certi versi, più desolante.

Mentre Goodfellas è a tutti gli effetti un gangster movie focalizzato nel dipingere un quadro d’insieme del panorama mafioso degli anni ’50 a New York, in Casinò l’attenzione di Scorsese è focalizzata sulle ossessioni dei tre protagonisti, sulla loro avidità e sul loro degrado morale. Non è il sistema mafioso il vero antagonista, quanto piuttosto la patologia intrinseca che abita i cuori dei suoi protagonisti, e che trova nel vortice di Las Vegas il suo catalizzatore perfetto. Non c’è alcun sentimento di appartenenza o di fratellanza in Casinò, tutto è ispirato da un evidente particolarismo che conduce gli uomini dentro abissi dai quali non è possibile fare ritorno. Il legame tribale, per quanto distorto, che ancora animava i personaggi di Goodfellas, qui si è dissolto in una nebbia di egoismi, paranoia e tradimento. La lealtà è una chimera, la fiducia un suicidio. Scorsese, attraverso la lente deformante del crimine organizzato, ci mostra la dissoluzione non solo di un impero, ma della fibra stessa dell'umanità.

Un’intricata gabbia di relazioni e passioni calata all’interno dello sfavillante mondo di Las Vegas, dove soldi e potere mettono in correlazione gli individui come un filo invisibile collega e costringe le pietre di una collana. Ma Las Vegas, in questa visione scorsesiana, è ben più di un mero sfondo; è un personaggio a sé stante, un labirinto scintillante e perverso che promette fortuna e consegna solo rovina. La sua architettura kitsch, le sue luci accecanti, il suo ciclo perpetuo di vincite e perdite, riflettono e amplificano la psicologia contorta dei personaggi. È una Babilonia moderna, un Eden artificiale dove i frutti proibiti sono il denaro facile, il gioco d'azzardo e il sesso, e la caduta è tanto più fragorosa quanto più alta è stata l'illusione di onnipotenza. Scorsese la dipinge come una sorta di purgatorio postmoderno, un luogo dove le anime, invece di purificarsi, si corrompono ulteriormente, intrappolate in un circolo vizioso di desiderio e autodistruzione.

L’abile ed esperto occhio del regista italo americano si insinua nelle menti di uomini devastati dai propri vizi tracciandone una sorta di cartografia ragionata, una topografia del decadimento. La sua macchina da presa, spesso frenetica eppure meticolosamente coreografata dal direttore della fotografia Robert Richardson, si muove con la precisione di un chirurgo che seziona un corpo malato, alternando panoramiche mozzafiato sui fasti del deserto a claustrofobici primi piani sui volti segnati dalla paura, dall'ira e dalla disperazione. Il montaggio virtuosistico di Thelma Schoonmaker, sua fedele collaboratrice di una vita, è un'orchestra di ritmi che passa dalla vertigine delle sequenze iniziali di opulenza e potere alla disarmante lentezza della caduta, punteggiata da esplosioni di violenza che squarciano la tela come pennellate brutali. Ogni inquadratura, ogni transizione, ogni brano della colonna sonora, meticolosamente selezionato da Scorsese, contribuisce a creare un'atmosfera di eccesso febbrile e tragedia imminente, trasformando la storia in una vera e propria opera cinematografica.

Nel 1973 la mafia italo-americana sceglie un suo uomo per infiltrarsi a Las Vegas nel business del gioco d’azzardo. Sam Rothstein, interpretato da un Robert De Niro di glaciale perfezione, ex giocatore d’azzardo con un talento quasi matematico per il controllo del rischio e una sete inestinguibile di ordine, viene posto alla direzione di uno dei più grandi casinò della città, il Tangiers. Sam è l'epitome dell'uomo che crede di poter domare il caos, di applicare la logica al regno dell'irrazionale, di gestire con la mente ciò che dovrebbe essere governato dal puro istinto. Ma la folle avidità della moglie Ginger McKenna, una donna bellissima e dannata la cui dipendenza dalla droga e l’amore malsano per il suo ex prosciugano non solo le finanze di Sam ma la sua stessa anima, e la brutalità incontrollabile del suo braccio destro Nicky Santoro, un concentrato di pura violenza animalesca e privo di ogni barlume di razionalità, faranno vacillare il suo effimero regno.

Il triumvirato di De Niro, Pesci e Sharon Stone è il cuore pulsante e putrefatto del film. De Niro interpreta Ace con una fredda precisione, un uomo che cerca di imporre la sua moralità peculiare in un mondo immorale, e che vede ogni cosa sfuggirgli di mano non per mancanza di intelligenza, ma per l'incapacità di controllare le pulsioni autodistruttive di chi gli sta intorno e le sue stesse, latenti, ossessioni. Pesci, in un ruolo che lo consacra come archetipo del "sicario psicopatico", porta Nicky a livelli di efferatezza quasi comica nella loro eccessività, ma sempre terrificante. È il caos personificato, il fuoco che brucia tutto ciò che Sam cerca di costruire. E Sharon Stone, in una performance che le valse una nomination all'Oscar, è il fulcro di questo vortice di autodistruzione. La sua Ginger non è solo la femme fatale archetipica, ma una creatura tragica, intrappolata nelle sue dipendenze e nella sua incapacità di amare, un sintomo vivente della corruzione di Las Vegas. La loro è una danza macabra, un balletto di passione, odio e gelosia che si consuma sullo sfondo di un impero economico destinato al collasso.

Casinò è una parabola cinica e spietata sul lato oscuro dell’animo umano. È incidentale che in questa vicenda sia coinvolta la mafia, non interessa a Scorsese ai fini della narrazione. Al contrario, Scorsese è interessato a collocare sul palcoscenico tre menti denudate di ogni difesa, un’operazione che trasforma lo spettatore in un complice, in un voyeur che spia nell’oscurità i subdoli recessi di quelle tre anime. L'epilogo, con i protagonisti sconfitti e il casinò che passa dalle mani della malavita a quelle delle grandi corporazioni, non è una catarsi, ma una constatazione amara: la follia e la corruzione non spariscono, si trasformano, si riorganizzano sotto una nuova, più fredda e impersonale, veste. Il gioco continua, ma i giocatori sono cambiati, e l'anima di Las Vegas, se mai ne ha avuta una, è perduta per sempre. È un'elegia per un'epoca di brutale, ma in qualche modo "autentica", illegalità, spazzata via da una legalità altrettanto predatrice, ma più anonima e asettica. Il film si erge a monumento funebre di un mito americano, quello della frontiera e dell'opportunità illimitata, mostrando come anche nelle luci più sfavillanti si annidi l'ombra più profonda della natura umana.

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