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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Castaway on the Moon

2009

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Un uomo salta da un ponte sul fiume Han, epicentro pulsante di una Seul che non si ferma mai. Non è un gesto tragico alla Albert Camus, né un urlo nichilista alla Dostoevskij. È, nella sua goffa e patetica esecuzione, l'ultimo, flaccido atto di resa di un salaryman schiacciato dai debiti, un fantasma prodotto in serie dal capitalismo iper-competitivo sudcoreano. Ma il destino, o forse solo la corrente, ha in serbo per lui un'ironia cosmica. Invece dell'oblio, Kim Seong-geun (un magnifico Jung Jae-young) si ritrova naufrago su Bamseom, un'isola disabitata e riserva naturale nel bel mezzo del fiume, un buco nero di natura selvaggia perfettamente visibile dai grattacieli che lo hanno vomitato via. È l'incipit di Castaway on the Moon (titolo originale Kimssi pyoryugi, letteralmente "La deriva del signor Kim"), e già in questa premessa risiede tutto il genio sovversivo di Lee Hae-jun: una decostruzione radicale del topos del naufragio, un Robinson Crusoe per l'era della Lehman Brothers, dove l'isola deserta non è un esotico altrove, ma una crepa surreale nell'asfalto della metropoli.

Il cinema ci ha abituato a vedere il naufrago come l'archetipo dell'uomo che lotta contro una Natura matrigna, che si ingegna per dominare l'ambiente e imporre la propria civiltà (Defoe) o, al contrario, che regredisce a uno stato primordiale (Golding). Il signor Kim, invece, non combatte contro nulla. La civiltà è lì, a portata di sguardo, un miraggio di vetro e acciaio che lo ignora con monumentale indifferenza. Le sue grida di aiuto si perdono nel ronzio del traffico, i suoi segnali disperati vengono scambiati per l'eccentricità di un barbone. La sua isola non è una prigione fisica, ma un limbo esistenziale. È escluso, ma non è solo. È la metafora perfetta dell'alienazione urbana: essere circondati da milioni di persone e sentirsi invisibili. La sua lotta per la sopravvivenza, inizialmente, è una farsa. Tenta di chiamare col cellulare scarico, cerca cibo commestibile tra i rifiuti portati dalla corrente. È un uomo moderno, spogliato dei suoi gadget e delle sue sovrastrutture sociali, ridotto a un'incompetenza quasi comica.

Ma è proprio in questo svuotamento che inizia la sua rinascita. Lee Hae-jun orchestra questa trasformazione con la grazia di una commedia di Jacques Tati e la profondità di una parabola Zen. Il signor Kim smette di cercare di "tornare" e inizia a "essere". Impara a pescare, a coltivare, a costruirsi un riparo. Ma il suo vero, titanico progetto, il suo Sacro Graal, diventa la preparazione di un piatto di jjajangmyeon, i noodles in salsa di fagioli neri. Questa ossessione non è un semplice capriccio gastronomico. È un atto di creazione quasi divino, un tentativo di ricreare dal nulla un simbolo di comfort e normalità, un sapore che è la quintessenza della sua vita precedente. La sua ricerca di ingredienti improvvisati—coltivare mais per fare la farina, raccogliere uova di uccelli—diventa un'epopea in miniatura, un poema omerico del fai-da-te che è al tempo stesso esilarante e commovente. Sta ricostruendo un mondo, non per imitare quello perduto, ma per distillarlo nella sua essenza più pura e desiderabile. È il Walden di Thoreau riletto da un impiegato disperato, che trova la sua trascendenza non nella contemplazione della natura, ma nel sapore di un piatto di pasta.

Se la prima metà del film è una riscrittura geniale del mito del naufrago, la seconda introduce un'altra naufraga, la cui isola è ancora più impenetrabile: una stanza. Kim Jung-yeon (una straordinaria Jung Ryeo-won) è una hikikomori, una reclusa volontaria che non esce dalla sua camera da tre anni. La sua finestra sul mondo è lo schermo di un computer, il suo unico contatto umano è l'aggiornamento del suo avatar su Cyworld, l'allora onnipresente social network coreano. Vive in un universo digitale curato e artificiale, un bozzolo di solipsismo dove ogni interazione è mediata, sicura, e fondamentalmente falsa. La sua routine è una liturgia ossessiva: si sveglia quando il mondo dorme, fotografa la luna (la sua unica, costante compagnia), e gestisce la sua identità virtuale. È l'altra faccia della stessa medaglia di alienazione: se il signor Kim è stato espulso fisicamente dalla società, la signora Kim si è espulsa psicologicamente.

Il loro incontro è un miracolo di pura scrittura cinematografica, un'idea che avrebbe fatto l'invidia di Charlie Kaufman. Durante la sua sessione annuale di fotografia del paesaggio urbano—un rituale per sentirsi parte del mondo senza toccarlo—la ragazza zooma con il suo teleobiettivo sull'isola di Bamseom e scopre "lui". Vede la scritta "HELP" sulla sabbia, che presto l'uomo, in un impeto di ritrovata serenità, trasformerà in "HELLO". Per lei, quest'uomo non è un naufrago da salvare, ma un alieno, un fenomeno celeste, un'anomalia affascinante che irrompe nella sua realtà sigillata. Inizia a osservarlo, a documentare la sua vita. Il suo sguardo, inizialmente da voyeur quasi scientifico, si tinge lentamente di empatia, di partecipazione. Lui diventa il suo programma preferito, la sua personale soap opera. È una versione di La finestra sul cortile di Hitchcock spogliata di ogni suspense e ricaricata di una malinconia romantica. Non c'è un delitto da risolvere, ma un'anima da scoprire.

La comunicazione che si instaura tra questi due eremiti è una delle più poetiche e anti-moderne mai viste al cinema. Lui le scrive messaggi sulla sabbia, lei gli risponde lanciandogli una bottiglia con un messaggio dentro, come un'epistola spedita attraverso il tempo e lo spazio. Più tardi, lei uscirà finalmente di casa (un'impresa eroica, filmata con la tensione di una missione spaziale) per consegnargli di nascosto un pacco di noodles istantanei, il suo "jjajangmyeon". È una comunicazione lenta, faticosa, asincrona. È l'antitesi esatta della chat istantanea, del "like", della notifica. Ogni messaggio richiede sforzo, intenzione, fede. È una connessione che si costruisce sul desiderio di essere visti, non sulla pretesa di essere ascoltati. In un'epoca che stava per essere fagocitata dall'iper-connettività dei social media, Castaway on the Moon è un commovente e profetico inno alla bellezza della distanza e alla sacralità dell'attesa.

Il film è una critica sottile ma affilata alla società sudcoreana del suo tempo, una nazione che, dopo il miracolo economico, si trovava a fare i conti con le sue vittime collaterali. Il debito del signor Kim e l'ansia sociale della signora Kim non sono eccentricità individuali, ma sintomi di una patologia collettiva. Eppure, Lee Hae-jun non punta mai il dito. Non c'è rabbia nel suo film, ma una profonda, tenera compassione. Preferisce la parabola alla denuncia, la poesia alla polemica. La sua regia è precisa, elegante, piena di invenzioni visive che trasformano il banale in magico: il riflesso della città sull'acqua che sembra un cielo stellato capovolto, la stanza della ragazza che è un diorama lunare, il montaggio parallelo delle loro vite solitarie che crea un dialogo silenzioso.

Quando l'inevitabile "salvataggio" arriva, sotto forma di una squadra di pulizia dell'isola durante un'esercitazione anti-terrorismo, non è una liberazione, ma una violazione. Il mondo esterno irrompe nel loro Eden privato, distruggendo la capanna del signor Kim, cancellando i suoi tre mesi di vita autentica, re-imponendogli l'identità di "fallito" da cui era fuggito. È qui che il film compie il suo ultimo, disperato scatto romantico. La ragazza, vedendo il suo "alieno" trascinato via, trova una forza che non sapeva di possedere. Corre. Esce dalla sua stanza, scende le scale, si lancia per le strade di Seul, sfidando il sole, la folla, le sue stesse paure. Corre verso l'autobus che lo sta portando via, in una sequenza mozzafiato che è puro batticuore cinematografico. Non sappiamo se si raggiungeranno, se il loro amore da favola potrà sopravvivere al contatto con la brutale realtà. Ma non è questo il punto. Il film si chiude su una nota di speranza radicale: la vera salvezza non è essere trovati dal mondo, ma trovare una ragione per correre verso qualcuno. Castaway on the Moon è una commedia romantica esistenziale, una favola sull'isolamento nell'era della comunicazione, un'opera piccola e silenziosa che contiene la vastità di un universo. È un capolavoro gentile, un messaggio in una bottiglia lanciato nel mare magnum del cinema contemporaneo, in attesa che un'anima solitaria lo trovi e si senta, per un istante, meno sola.

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