Central do Brasil
1998
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Regista
Un film che parla il linguaggio dell’anima e che, con il suo vellutato lirismo, estasia e commuove. Non si tratta di una mera narrazione di eventi, ma di un’immersione quasi sinestetica in una condizione umana universale, filtrata attraverso le specificità di un contesto vibrante e sofferto. La sua forza non risiede nell’esibizione di gesti grandiosi, bensì nella capacità di evocare la bellezza intrinseca della fragilità e la potenza redentrice della connessione umana, avvolgendo lo spettatore in un’aura di profonda malinconia e, al contempo, di indomita speranza.
Uno sguardo lucido e disincantato alla devastazione sociale ed economica di un paese per altri versi ricolmo di bellezza. Walter Salles non si limita a dipingere un quadro desolante della povertà e dell'analfabetismo; egli scava nelle loro ramificazioni emotive, mostrando come le crepe del tessuto sociale si riflettano nelle anime dei singoli, ma anche come, proprio da quelle crepe, possa germogliare una resilienza inaspettata. È un ritratto di un Brasile in transito, in bilico tra la modernità caotica delle sue metropoli e la quiete atavica delle sue regioni più remote, un paese dove le promesse non mantenute si scontrano con una dignità umana indomita.
Con quest’opera Walter Salles si segnala alle platee mondiali e si guadagna l’attenzione della critica facendo incetta di premi cinematografici (Orso d’Oro, Golden Globe, Bafta). Un trionfo meritato che ha consacrato il regista brasiliano come una delle voci più autentiche e sensibili del cinema contemporaneo, erede spirituale di una tradizione neorealista che trova in Salles una reinterpretazione inedita e profondamente sudamericana. Il suo cinema, già precedentemente apprezzato per la sottigliezza di opere come Terra Estrangeira, qui raggiunge una maturità espressiva che coniuga maestria formale e profondità etica, ponendosi come un ponte tra il cinema d'autore europeo e la vibrante energia delle cinematografie latinoamericane.
La storia è incentrata su un piccolo orfano di madre che decide di partire da Rio de Janeiro alla ricerca del padre. Josué, questo il nome del bambino, incarna la purezza non corrotta di chi è ancora in grado di guardare al mondo con occhi ingenui e carichi di aspettative, nonostante il brusco contatto con la realtà della strada. Egli è la scintilla che accende la fiamma della riscoperta umana.
Lo aiuterà un’anziana maestra di scuola che scrive e legge lettere per gli analfabeti e che prende a cuore la sua vicenda. Dora, interpretata da una magistrale Fernanda Montenegro – la cui performance, intrisa di una sfumata umanità, le valse una storica nomination all'Oscar – è un personaggio stratificato: inizialmente cinica, disillusa dalla vita e dalle miserie altrui che quotidianamente le passano sotto gli occhi nella stazione centrale, un vero e proprio epicentro di storie smarrite e destini incerti. La “Central do Brasil” del titolo non è solo un luogo fisico, ma un crocevia simbolico di speranze e disperazioni, dove la comunicazione scritta, spesso ultimo baluardo contro l'oblio, diviene merce di scambio e veicolo di illusioni.
I due intraprenderanno un viaggio che è anzitutto esplorazione dell’anima, con la costruzione di un delicato rapporto emotivo che diviene un tenero surrogato dell’amore filiale. Non è un semplice itinerario geografico, ma un’odissea esistenziale che si dipana tra le pieghe più recondite dell’animo umano, rivelando strati di resilienza e tenerezza che la civiltà moderna tende a sopire. Il loro legame, nato da una transazione mercantile e da una iniziale diffidenza reciproca, evolve in una reciproca dipendenza emotiva, un’alleanza atipica che ridisegna i confini della famiglia e del senso di appartenenza. Dora, attraverso gli occhi di Josué, riscopre la capacità di sentire, di donare e di ricevere, mentre Josué trova in lei una figura quasi materna, una bussola in un mondo vasto e sconosciuto.
Un road movie di un meraviglioso candore, emotivamente coinvolgente, capace di stupire con la forza della suggestione di panorami incantati ma anche con il soffice potere della più elementare delle emozioni umane: l’amore materno. Il genere del road movie, qui, viene elevato a metafora di un percorso interiore, un viaggio di formazione non solo per il giovane protagonista ma anche per la sua improbabile accompagnatrice. L'orizzonte in continuo mutamento del sertão brasiliano, ripreso con una fotografia che ne esalta la cruda bellezza e la vastità disarmante, diviene lo specchio delle transizioni emotive dei personaggi. La macchina da presa di Salles, mai invadente, si fa osservatrice discreta di un’epopea minima, dove ogni paesaggio attraversato non è solo sfondo, ma parte integrante dell’evoluzione psicologica dei due protagonisti. Le città caotiche lasciano il posto a villaggi remoti, e la frenesia umana si dissolve nella quiete imponente della natura, simboleggiando il progressivo riavvicinamento a una dimensione più autentica e primordiale.
A corollario iconografico del viaggio le immagini di un Brasile splendente e soggiogato dalla povertà. La bellezza struggente del paesaggio, che spazia dalle megalopoli brulicanti alle distese aride e polverose dell'interno, non è mai edulcorata né spettacolarizzata, ma piuttosto inserita con onestà brutalmente poetica nel racconto. Ogni inquadratura è intrisa di un profondo rispetto per la realtà che ritrae, mettendo in luce le contraddizioni di una nazione in continua metamorfosi, dove la miseria convive con una ricchezza culturale e naturale inestimabile.
Un film di straordinaria delicatezza, che dipana i suoi incanta con una discrezione, una sobrietà quasi mistica. Questa sobrietà, lungi dall'essere una limitazione, è la chiave della sua risonanza universale. Salles non ha bisogno di artifici narrativi complessi o di effetti speciali; la sua arte risiede nella capacità di distillare l'essenza dell'esperienza umana, riducendola ai suoi termini più puri e commoventi. È un'opera che sussurra anziché urlare, e proprio nel suo tono sommesso trova la sua massima eloquenza, lasciando allo spettatore il compito di colmare i silenzi e di abbracciare la fragile, ma immensa, speranza che pulsa in ogni inquadratura. Un gioiello cinematografico che continua a brillare con una luce propria, eterna e profondamente umana.
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