C'era una Volta in America
1984
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Regista
Sergio Leone concepisce un’opera imponente ispirandosi all’autobiografia di David Aronson “A mano armata”, un testo che già nel titolo originale, The Hoods, evocava la malavita e la disillusione di un’epoca. Ma Leone, con la sua inconfondibile lente d'ingrandimento autoriale, trascende la cronaca criminale per forgiare un affresco monumentale, una vera e propria ode crepuscolare a un’America perduta, narrata attraverso la parabola esistenziale di un gruppo di gangster ebrei newyorkesi. Non una semplice trasposizione, dunque, ma una rielaborazione profonda, un’immersione nel ventre oscuro del sogno americano, dove l’ascesa sociale si confonde con la caduta morale e il successo si rivela una prigione dorata.
Un film che è da molti ritenuti il capolavoro di Sergio Leone e che questi realizza con un certo agio (rispetto a certe precedenti produzioni) avendo a disposizione un budget consistente e la possibilità di scritturare star di fama internazionale. Questo "agio" non è solo economico, ma il frutto di anni di meticolosa preparazione, di un'ossessiva ricerca della perfezione che aveva già caratterizzato i suoi western e che qui raggiunge l'apice in una sinfonia visiva e narrativa senza precedenti. L'abbandono del deserto del New Mexico per le labirintiche strade di una New York d'epoca segna la sua definitiva consacrazione come narratore di miti, un passaggio epocale dal pulp eroico alla tragedia umana, pur mantenendo quell'epica grandiosità e quella stilizzazione che lo hanno sempre contraddistinto.
Per il ruolo del protagonista sceglie un professionista affermato (con due oscar già vinti) che non ha bisogno di presentazioni: Robert De Niro. La sua scelta non è casuale: De Niro porta con sé l'aura di personaggi già iconici del gangster movie, da Vito Corleone giovane a Jake LaMotta, prestando a Noodles una complessità stratificata, una maschera di imperscrutabilità sotto la quale ribollono rimorsi e nostalgie insopprimibili. James Woods e Joe Pesci, saranno certamente un acquisto altrettanto importante per il cast del film, affiancati da un’eccezionale Elizabeth McGovern nel ruolo di Deborah, musa irraggiungibile e tormento di Noodles, e dalle toccanti performance di giovani talenti come Jennifer Connelly e Tuesday Weld, che contribuiscono a dipingere un quadro così vasto e doloroso, elevando l’opera a corale affresco umano.
La sceneggiatura richiede un lavoro immane e Leone chiama a sè Leo Benevenuti, Piero De Bernardi, Enrico Medioli, Franco Arcalli e Franco Ferrini che insieme a lui collaboreranno per realizzare uno dei copioni più complessi della storia del cinema. Non si tratta di una mera sequenza di eventi, ma di un intricato labirinto temporale che riflette la natura frammentata e soggettiva della memoria stessa. La storia infatti viene concepita con taglio non sequenziale con ampio uso di flash-backs e flash-forwards, una struttura che non è un vezzo stilistico, ma il cuore pulsante del film, rendendo lo spettatore un archeologo dei ricordi di Noodles, costretto a ricomporre un mosaico di verità spesso sfuggenti e ambigue. Questa destrutturazione cronologica è un’audace dichiarazione d’intenti artistici, un invito a leggere il passato non come un dato oggettivo, ma come un sogno, o un incubo, che si proietta inesorabilmente sul presente, alimentando il dubbio sulla realtà di ciò che si è vissuto.
E proprio questo meraviglioso ritmo narrativo è oggetto di scempio da parte della produzione che per il mercato americano realizzerà una versione addirittura con montaggio sequenziale e con tagli per 26 minuti stravolgendo di fatto l’intento artistico originario e commettendo un autentico abominio. Questa mutilazione, una ferita aperta nella storia del cinema d'autore, fu un disastro critico e commerciale che per poco non segnò la fine della carriera di Leone negli Stati Uniti, oscurando ingiustamente un capolavoro. Fortunatamente, il tempo, e le successive edizioni restaurate e integrali, hanno reso giustizia alla visione leoniana, riconoscendone la grandezza e il coraggio di una narrazione che sfida le convenzioni e ridefinisce il rapporto tra tempo cinematografico e coscienza umana.
Un film che racconta l’epopea di David Noodles, Cockeye, Patsy e Max, quattro amici che da piccoli manigoldi di quartiere scaleranno i vertici criminali della città. Le loro vicende coprono un arco temporale che va dagli anni venti del feroce proibizionismo agli anni sessanta della rivoluzione culturale, un viaggio attraverso un’America in costante mutamento, dalle speakeasies clandestine ai fermenti sociali che sfociano in una modernità disillusa. È un racconto di formazione che si trasforma in racconto di deformazione, dove l’innocenza infantile è brutalmente divorata dalle logiche della strada e dal miraggio di un successo effimero, un’amara parodia del sogno americano che si realizza solo attraverso la violenza e il tradimento. La narrazione segue le loro vite riportandone i tradimenti, gli atti di valore, le meschinerie, i misfatti più atroci, fino ad incrociare un disilluso Noodles che ormai anziano fa ritorno a New York amareggiato dal passato e senza più alcun progetto per il futuro. Il film è anche una riflessione sul tempo che passa, sulla corruzione dell'anima e sulla natura illusoria del successo, un'amara meditazione sulle scelte che ci definiscono e ci condannano, un labirinto di eco e rimpianti.
La parabola criminale ci appassiona, ci diverte, ci commuove, in una parola: pathos allo stato puro. È il dolore della memoria che si fa cinema, un’indagine sulla fragilità dei legami umani e sull’inevitabilità del destino. Il tradimento, sia quello personale che quello di un ideale, è il fulcro emotivo che innerva ogni scena, rendendo la cronaca di un’ascesa e caduta criminale un’universale allegoria dell’amarezza e della solitudine esistenziale. Non è solo un gangster movie, ma un’opera che si eleva a tragedia greca moderna, una meditazione sulla solitudine dell’individuo di fronte alle sue scelte irrevocabili, al pari dei grandi romanzi esistenzialisti. Il sorriso enigmatico di Noodles nella scena finale, dopotutto, continua a generare interrogativi, suggerendo che l’intera epopea potrebbe essere nient’altro che un’allucinazione indotta dall’oppio, un modo per sfuggire a un’insostenibile realtà.
Un’attenzione maniacale per i particolari, un amore infinito per la ricostruzione storica, un’interpretazione notevole dei suoi protagonisti, tutto ciò fa di quest’opera un affresco vivido, coinvolgente: una radiografia spietata di un’intera epoca. La fotografia di Tonino Delli Colli, con i suoi chiaroscuri caravaggeschi e i suoi grandangoli che dilatano lo spazio e il tempo, contribuisce a creare un'atmosfera onirica e opprimente, in cui ogni dettaglio scenografico è un tassello fondamentale di un mondo scomparso, ricreato con una devozione quasi archeologica. E poi c’è la musica di Ennio Morricone, non un semplice accompagnamento, ma una componente narrativa intrinseca, un lamento struggente che sottolinea la nostalgia, la malinconia e il dolore, diventando essa stessa un personaggio muto e onnipresente che ne scandisce i momenti più iconici e toccanti, come il celebre tema di Deborah. Un De Niro che rifulge per la sua gestione dello spazio attraverso una mimica composta, credibile, vera, capace di esprimere interi mondi interiori con un solo sguardo, una pausa, un gesto, incarnando la quintessenza del rimpianto.
Un film che dona un nuovo significato al termine “epopea”, che immerge lo spettatore nel ritmo narrativo perfettamente congegnato della storia e non lo abbandona fino alla parola “fine”... o forse nemmeno dopo. Perché la sua grandezza risiede proprio in quella sensazione di sospensione, di un dubbio esistenziale che ci accompagna anche a proiezione conclusa, un riverbero che si proietta ben oltre i titoli di coda. È una sinfonia maestosa di immagini, suoni e silenzi, un’opera che scava nelle pieghe più recondite dell’anima umana, lasciando un’impronta indelebile nella memoria collettiva, e confermandosi non solo come un pilastro del cinema gangster, ma come un poema universale sulla memoria, il rimpianto e l’illusione di una felicità mai pienamente raggiunta, destinata a rimanere solo un'eco lontana.
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