Sciarada
1963
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Regista
Sciarada di Stanley Donen è, con ogni probabilità, il più bel film di Alfred Hitchcock che Alfred Hitchcock non ha mai girato. Questa non è una critica, ma il più alto dei complimenti. L'opera di Stanley Donen è un omaggio così perfetto, così spiritoso e così elegantemente costruito alla formula del thriller romantico del Maestro del Brivido da diventare, a sua volta, un capolavoro autonomo. È un cocktail cinematografico impeccabile, un miscuglio perfettamente dosato di suspense, commedia sofisticata e glamour, shakerato e servito con una leggerezza e un brio che solo un regista con il ritmo di un musical nelle vene poteva concepire. Un film dalla perfezione quasi matematica per il puro, ineffabile piacere che regala.
Sciarada è davvero simile alle opere più mainstream di Hitchcock, perché non presenta quelle correnti emotive oscure e quelle ossessioni psicologiche che spesso permeano i lavori più seri del regista. Il paragone più immediato, e corretto, è con il mix di suspense, romanticismo e commedia di film come Caccia al ladro e, soprattutto, Intrigo internazionale. Come in quest'ultimo, abbiamo il protagonista gettato in una cospirazione che non comprende, una parata di personaggi ambigui, una sceneggiatura che è un meccanismo a orologeria di colpi di scena e un'ambientazione glamour che fa da sfondo all'azione. Ma dove Hitchcock tinge sempre le sue storie con una punta di ansia, di paranoia, di colpa quasi cattolica, Stanley Donen orchestra il tutto con una bacchetta diversa. La sua è la sensibilità di un maestro del musical, il regista di capolavori come Cantando sotto la pioggia. Donen dirige Sciarada come se fosse un musical senza numeri cantati: il dialogo ha un ritmo frizzante e percussivo, le scene d'azione hanno una grazia quasi coreografica e la storia d'amore ha la leggerezza di un passo a due. Sostituisce l'angoscia di Hitchcock con una pura e contagiosa effervescenza.
Gran parte del merito va alla sceneggiatura di Peter Stone, un congegno di una intelligenza diabolica. Stone, qui al suo primo grande lavoro, crea un giallo che gioca costantemente con le aspettative dello spettatore. La trama è un pretesto meraviglioso: Regina Lampert, una spiritosa e impeccabile interprete di simultanea, torna a Parigi da una vacanza con l'intenzione di divorziare, solo per scoprire che suo marito è stato assassinato e che il loro appartamento è stato completamente svuotato. Presto si ritrova braccata da un trio di ex commilitoni del defunto marito, tutti convinti che lei sappia dove si nasconde un quarto di milione di dollari in oro rubato durante la guerra. Il suo unico, presunto alleato è un affascinante e misterioso uomo, Peter Joshua, che però continua a cambiare nome e versione dei fatti, lasciando Regina (e noi con lei) in un perenne stato di dubbio: è il suo salvatore o il più abile dei suoi persecutori? La grandezza della sceneggiatura sta in questo gioco di identità multiple, una sciarada continua che rende ogni scena un delizioso campo minato di bugie e mezze verità.
E poi, naturalmente, ci sono loro: Cary Grant e Audrey Hepburn, una delle coppie più carismatiche e perfettamente assortite della storia del cinema. La loro alchimia è leggendaria. Audrey Hepburn non interpreta la classica damigella in pericolo. La sua Regina Lampert è una donna moderna, intelligente, indipendente e dotata di un umorismo nero irresistibile. Anche di fronte alla morte, non perde mai la sua compostezza e la sua arguzia. Il suo guardaroba, curato dal suo stilista di fiducia Givenchy, è una lezione di stile che ha definito l'eleganza dei primi anni '60. Cary Grant, d'altra parte, gioca magistralmente con la sua stessa icona. All'epoca quasi sessantenne, era preoccupato per l'evidente differenza d'età con la Hepburn. La sceneggiatura di Stone risolve brillantemente il problema facendo di Regina il motore romantico della relazione. È lei che lo insegue, che flirta spudoratamente, che lo provoca. Questa inversione dei ruoli non solo smorza la differenza d'età, ma rende la loro dinamica incredibilmente fresca e moderna. Grant è al culmine del suo fascino maturo, un uomo che potrebbe essere un eroe, un mascalzone o entrambi, e il cui sorriso enigmatico è la chiave dell'intero film.
Inserito nel suo contesto culturale, Sciarada può essere visto come l'ultimo, spumeggiante brindisi dell'era di Camelot. Uscito alla fine del 1963, cattura un'atmosfera di ottimismo, glamour e raffinatezza che di lì a poco sarebbe stata spazzata via da eventi storici più cupi. Ma c'è un'altra analogia, più obliqua e nerd, che si può azzardare. Nonostante sia una produzione hollywoodiana fino al midollo, il film, con la sua ambientazione parigina e il suo spirito giocoso e auto-consapevole, sembra quasi dialogare a distanza con la Nouvelle Vague francese. Il modo in cui decostruisce e ricostruisce i tropi del thriller, i suoi dialoghi che sembrano quasi ammiccare allo spettatore, e le sue riprese in location reali per le strade di Parigi, hanno una leggerezza e una modernità che non sarebbero fuori posto in un film di Truffaut, se Truffaut avesse avuto a disposizione un budget illimitato e le due più grandi star del pianeta.
In definitiva, Sciarada è la perfezione fatta intrattenimento. È un film che non ha un solo grammo di grasso, una singola scena fuori posto, una battuta sprecata. La regia di Donen è un miracolo di equilibrio, la sceneggiatura un gioiello di ingegneria narrativa e i suoi protagonisti sono semplicemente divini. Un'opera che rappresenta il vertice assoluto di un certo tipo di cinema: quello che crede che l'intelligenza, lo stile e il puro piacere possano e debbano andare di pari passo. È un'ora e cinquanta di pura, ininterrotta delizia.
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